Periodo lavorativo molto difficile

  • C'è un angolo sul mio poggiolo, tra un vaso di salvia ed uno di peperoncini rossi, che guarda la strada quattro piani più in basso.


    Ogni tanto, quando il peso si fa insopportabile, mi affaccio da lì e mentre osservo le persone che vanno e vengono lungo la via e le auto posteggiate, i miei pensieri volano.

    Volano a mia madre anziana, quasi cieca ed a mio figlio, che merita tutto il meglio e che è la prima vittima innocente del matrimonio fallito dei suoi genitori.

    E mi immagino di volare anch'io, come il protagonista del video di "Owner of a Lonely Heart" degli Yes, che nella scena finale, per fuggire dai propri fantasmi e dalla propria disperazione, salta giù dalla cima di un grattacielo e mentre cade nel vuoto sì trasforma in un uccello.


    In queste settimane, poi, questo angolo è diventato ancora più spaventoso.

    Una ex collega "cara" – che si trasferisce in un altro ospedale – è riuscita, con la sua cattiveria e vendetta, a farmi prossimamente finire davanti al Consiglio di Disciplina, probabilmente per essermi permesso di segnalare al coordinatore di reparto un suo cronico atteggiamento di "disinteresse e mancata collaborazione" tra le varie figure professionali (avete presenti gli infermierini laureati, che il lavoro sporco lo demandano a figure socialmente inferiori come quella degli OSS?). E diciamo che questa persona non è nuova a certe bassezze, essendo che già in un recente passato si è cimentata in qualche altra carognata a danno di altri colleghi/e a lei sgraditi.

    Tralascio ulteriori dettagli, come lo spavaldo menefreghismo nel seguire certe abitudini di reparto, a seguito del quale ho iniziato ad annotare meticolosamente tutti quelli che facevo io, per dimostrare un certo impegno da parte mia nei voler evitare disguidi ed immancabili rimproveri (io sono uno dei più anziani di reparto e dovrei essere integerrimo in tutto).


    Io vengo dalla vecchia scuola, quella Regionale dei tempi "preistorici", nella quale ci fu insegnato che esiste la collaborazione fra tutti i membri del gruppo, nell'interesse del malato, ma evidentemente nel corso degli anni è cambiato qualcosa e non me ne sono accorto prima, perché intorno a me vedo tantissimo classismo tipico da laureati e relativo menefreghismo, con gente che se ne sta seduta con gli occhi chiusi e la testa reclinata all'indietro (o col cellulare in mano a chattare) mentre gli altri vanno avanti ed indietro per portare avanti il lavoro.


    E così, probabilmente a seguito della mia segnalazione al coordinatore, questa cara ex collega ha preso pedissequamente nota di tutti gli errori che facevo (dopo oltre 25 anni di carriera capita spesso di fare cose in maniera automatica senza rendersi conto che non andrebbero fatte, o magari di fare qualche azione apparentemente brusca per mobilizzare qualche paziente che non collabora e magari ti sfugge anche dalla bocca qualche invocazione alle divinità, perché magari si va a fare la notte con quattro ore di sonno in due giorni e la schiena a pezzi).


    Inoltre a questa persona piaceva parecchio creare inimicizie tra persone a lei sgradite, portandomi a cercare chiarimenti con alcune colleghe, una delle quali da sua più acerrima nemica è diventata sua confidente nel giro di una ventina di minuti scarsi, andandole probabilmente a riferire certe cose che le avevo confidato ingenuamente sperando di avere un po' di comprensione dopo alcuni disguidi e relative critiche rivolte al turno.


    Io vedevo questa persona, sempre estremamente piena di sé, che ha sempre guardato dall'alto in basso i suoi colleghi quasi disprezzandoli, sempre pronta a celebrare le proprie imprese per rimarcare quanto siano incapaci gli altri rispetto alla sua bravura, come una gran manipolatrice e tendenzialmente anche bugiarda patologica.


    Il sindacalista che mi assisterà mi ha già detto che di licenziamento non se ne parla, ma che mi prenderò qualche giorno di "purga", con la raccomandazione di "rigare dritto come un fuso" in seguito.

    Sempre a livello sindacale mi hanno già detto che mi aiuteranno a cambiare reparto, perché lì non devo assolutamente più starci.


    Io spero anche che chi ha recepito quelle segnalazioni si sia reso/a conto che questa "cara" ex collega di turno ha voluto calcare abbastanza la mano, probabilmente per vendetta (e non sarebbe nemmeno la prima volta, dato che alle persone a lei antipatiche qualche tempo fa hanno ricevuto la loro bella dose di carognate, rigorosamente fatte alle spalle).


    Non so voi cosa ne pensiate, ma io sono esausto, allo stremo delle forze. Questo episodio è solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo.

    Il burnout è una bestia silenziosa e spesso l'unico sollievo sembra essere quel piccolo angolo sul poggiolo, ma come ho già detto penso a mio figlio ed a mia madre e rientro in cucina, carico di angoscia e di paura di non riuscire più a gestire questo disagio in futuro.

    E tutto questo malessere che affligge migliaia di persone non interessa a chi comanda e/o coordina; bisogna essere come i robot, scattanti ed efficienti al 1000% , felici di lavorare freneticamente e di accumulare stanchezza ed insonnia.

    Ed il totale disinteresse da parte degli italiani fa capire quanto il burnout sia un problema ritenuto marginale e che in realtà chi ne soffre viene liquidato come qualcuno che semplicemente non ha voglia di lavorare.


    Tra colleghi non c'è un minimo di solidarietà; chi inciampa e cade diventa un ramo secco da tagliare, zavorra da eliminare.


    Mi mancano otto anni e mezzo al fatidico traguardo dei 67; purtroppo la strada da percorrere è ancora lunga.



    P.S. Ho dimenticato di dire che nonostante la situazione che si è creata a seguito del regalo di addio da parte di questa "cara" ex collega, non riesco tuttavia a provare odio e rancore nei suoi confronti, ma soltanto un'enorme sensazione di stupore ed incredulità su come qualcuno possa arrivare a fare del male ad un collega di lavoro in questo modo, un collega con un divorzio abbastanza pesante dal punto di vista psicologico (e monetario) appena lasciato alle spalle che in passato le ha raccontato i fatti più personali della sua vita, ritenendola una collega leale e corretta (fino a quando qualcuno mi prese da parte dicendomi "Ti do' un consiglio, non star più a raccontare i fatti tuoi a quella lì, perché ti parla dietro)", giocando sul fatto di aver dato le dimissioni per trasferirsi altrove.

    Ed ho anche avuto notizie di certe cose assurde trapelate da certi suoi racconti, rigorosamente fatti alle mie spalle, del tipo che io ci avrei provato con lei (questa è la più colossale ed inverosimile bugia che poteva raccontare) e che guardavo film "osé" tramite un PC del reparto, cosa questa impossibile in quanto esiste un blocco a livello informatico che impedisce di visualizzare certe categorie di siti internet.


    Ed a quasi 60 anni mi ritrovo a dovermela far fare sulla testa da una ragazzetta viziata, arrogante, evidentemente problematica che dalla sua parte ha un'enorme capacità di manipolare le persone.


    Spero di uscire da questa storia con le ossa meno rotte possibile, ma poi resterà la consapevolezza di avere uno stigma cucito addosso, perché se sbagli ed inciampi si rimane marchiati a vita.

  • Qubit

    Approvato il thread.
  • Ciao Zeta Reticuli

    il tuo messaggio contiene tutto: stanchezza, delusione, impotenza, e quel sottile filo di dignità che ancora tiene insieme le cose.

    Contiene anche qualcosa di prezioso, soprattutto per chi lavora in ambito sanitario o, più in generale, in qualsiasi sistema umano complesso: una testimonianza lucida e vera.

    E nella verità, anche scomoda, si nascondono spesso le domande giuste, quelle che ci obbligano a guardare da vicino ciò che, per quieto vivere, preferiremmo ignorare.


    Il tuo poggiolo con la salvia e i peperoncini non è solo un angolo di casa.

    È un confine. Tra il crollare e il restare.

    E ogni volta che scegli di rientrare, anche solo per tua madre o per tuo figlio, stai compiendo, anche se non sembra, un atto di resistenza.


    Lavoro anch’io in ambito sanitario, anche se non in un reparto di degenza, ma in un contesto più tecnico e sperimentale.

    E forse proprio per questo, osservando le dinamiche da un angolo meno immerso, mi è capitato spesso di notare certe rigidità, certe spaccature, soprattutto nel gruppo a cui fai riferimento.


    Sono abituata a queste dinamiche: da qualche anno sono responsabile di dipartimento, e ti assicuro che non è sempre semplice gestire e, soprattutto, accontentare tutti.

    Ma una cosa mi è chiara da sempre: non do credito ai pettegolezzi né alle lamentele infondate.

    Cerco soluzioni, non colpevoli.

    Quando qualcosa non torna, il mio primo passo è quasi sempre il confronto diretto: una chiacchierata, uno scambio.

    Evito le punizioni scritte, che lasciano strascichi e conseguenze, a meno che non si tratti di errori gravi e reiterati, quelli che davvero non si possono più ignorare.


    Conosco bene il tipo di clima che descrivi: dove dovrebbe esserci alleanza, c’è spesso conflitto; dove dovrebbe emergere il gruppo, si affermano piccoli poteri personali.

    In ogni contesto simile si incontrano sempre le stesse figure: il precisino, lo scansafatiche, il pettegolo, il lavoratore silenzioso, il manipolatore.

    E se calpesti, anche solo involontariamente, il terreno di qualcuno che si è abituato a fare il bello e il cattivo tempo... è quasi inevitabile diventarne il bersaglio.


    Non ho elementi per giudicare l’episodio nel dettaglio, ma so bene che, quando si alza la testa e si fa una segnalazione, per quanto giusta, c’è sempre un prezzo da mettere in conto.

    E anche se gli errori che ti sono stati attribuiti sembrano più che altro piccole leggerezze (cose che possono accadere a chi lavora da anni, spesso in automatico e sotto pressione), alcune dinamiche che hai raccontato, come gli scatti d’impazienza o certe imprecazioni davanti ai pazienti, ti pongono forse una domanda importante: "Sto ancora agendo in linea con ciò che credo giusto, o ho lasciato che la fatica prendesse troppo spazio?".


    Non lo dico per giudicare, ma per rispetto.

    Perché chi ha il coraggio di raccontarsi così, apertamente, merita anche che gli venga restituita la verità. Senza filtri, ma con umanità.


    E umanità ce n’è molta, nel tuo racconto.

    In quel rientrare in cucina ogni volta.

    Nel pensiero rivolto a tuo figlio.

    Nel non provare rancore, nonostante tutto.


    Se ti va un ulteriore confronto, dove condividere altri aspetti, sfumature, domande, io sono qui.

    Teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza soffiamo via il resto. George Eliot

  • Grazie per avermi risposto.


    Il mio messaggio contiene tantissima ansia, amarezza e delusione nei miei stessi confronti, perché penso che quando la buonanima di mio padre aveva la mia età avrà si avuto i suoi problemi sul lavoro, ma non era sicuramente il tipo da arrovellarsi il cervello come faccio io.

    E mio figlio che da quasi un mese mi vede col muso lungo e preoccupato cosa penserà di me?


    La mia paura adesso è che mi arrivi una sanzione "pesante" (penso soprattutto al punto di vista economico).

    Penso che come mi disse il delegato sindacale, se me ne stavo zitto e non avessi segnalato niente a quest'ora era tutto tranquillo e pacifico.


    Quell'angolo sul poggiolo l'ho addocchiato già da anni, dopo che il mio matrimonio è andato in malora; è come la cima del grattacielo di quel video degli Yes, soltanto che chi si butta da lì non si trasforma in nessun uccello ma va' a sbattere sulla strada.

    Fare certi gesti richiede una dose enorme di coraggio ed a me manca, tuttavia come ho scritto nel messaggio precedente temo di arrivare ad un ipotetico punto nel mio futuro in cui non riesco più a gestire questo malessere, ora sicuramente amplificato da questa disavventura lavorativa.


    Mancano otto giorni, che saranno i più lunghi della mia vita.

    Poi vorrei un po' di serenità, un po' di tranquillità, non chiedo tanto.

    Vorrei anche ritrovare un po' di lealtà nei rapporti umani-lavorativi, cosa anche questa sempre più rara ed assurda.

  • Ho letto le tue parole più volte, come si fa con le lettere che contengono una fatica profonda.

    E quello che si percepisce è tanto.

    C’è ansia, sì. C’è amarezza. Ma c’è anche una lucidità che in realtà è una forza, anche se adesso ti sembra una condanna.

    Una di quelle che, quando tutto intorno traballa, ti tiene ancora in piedi.


    Capisco bene il senso di colpa che racconti.

    Capisco quella voce che paragona il tuo malessere a un’epoca diversa, dove "i padri non si arrovellavano", dove sembrava tutto più semplice, più netto.

    Ma non sei meno forte di lui.

    I tempi cambiano, e con loro i pesi.


    Capisco anche la paura di una sanzione.

    Soprattutto se, oltre al danno, rischia di arrivare anche la beffa.

    Ma vedi… alzare la testa, in certi ambienti, fa rumore.

    E chi è abituato al tacito consenso, teme chi rompe la quiete apparente.

    Il tuo gesto però non è stato uno sbaglio.

    È stato un atto di dignità.

    E la dignità, a lungo termine, fa meno danni del compromesso.


    Il poggiolo.

    Quel riferimento così crudo, così visivo, mi ha lasciata senza fiato.

    Hai usato l’immagine di chi è arrivato davvero al bordo.

    Eppure, anche lì, stai resistendo.

    Nonostante tutto.


    Otto giorni sono lunghi, sì.

    Quando si è in attesa, ogni ora pesa come un macigno.

    Ma possono anche essere otto giorni per respirare.

    Per concederti, se riesci, uno spazio che non sia solo attesa e sospensione, ma anche pausa da te stesso e da ciò che ti sta accadendo.


    Tu chiedi poco: serenità, lealtà, silenzio buono.

    Ma quel poco, lo so, a volte sembra irraggiungibile.

    Non ho soluzioni semplici da offrirti.

    Ma una cosa posso dirtela: quello che ti sta accadendo non ti definisce.

    E il dolore che ora sembra stringere tutto, un giorno sarà soltanto una stanza che avrai attraversato.


    Quando vuoi, se vuoi, ci sono.

    Per scrivere, per ascoltare, o semplicemente per restare sul poggiolo, ma con lo sguardo rivolto altrove.

    Verso qualcosa che ancora chiama. Anche piano, anche da lontano.


    Se ti va, raccontaci cos’è accaduto.

    Qual è stato il motivo del provvedimento.

    Non per giudicare, non è questo il luogo, ma per offrirti, se possibile, qualche consiglio pratico. O semplicemente un sostegno che non giudica, ma accompagna.

    Teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza soffiamo via il resto. George Eliot

  • I motivi del procedimento sono tutti basati su abitudini incancrenite che un lavoratore si porta dietro, quasi sempre inconsapevolmente, dopo 10, 20, 25 o 30 anni di servizio.

    Questo non giustifica il mettere in pratica certe cose con le modalità sbagliate sia comunque corretto, perché se c'è un protocollo ufficiale (chiamiamolo così, anche se ora i protocolli non c'entrano) bisogna seguirlo.

    Intervengono poi quelle che in gergo si chiamano "malizie", ovvero piccole scappatoie che si usano per alleggerire un carico lavorativo di per sé già considerevole. Cosa che qualunque lavoratore nel mondo è abituato a fare, siamo sinceri.


    E tutto questo si basa soprattutto sulla complicità tra colleghi (ovviamente non si deve sconfinare nel penale perché è con la vita delle persone assistite che si gioca), concetto che via via vedo inaridirsi sempre di più, tipico del cosiddetto cane che mangia un altro cane.


    Ad esempio ieri ho sentito una collega, con la quale ho parlato un po' di questa vicenda; ad un certo punto la discussione è andata a finire sulle scarse capacità di una nuova infermiera arrivata da poco, ancora decisamente disorganizzata, lenta e con le ossa da irrobustirsi, insomma deve ancora iniziare ad imparare quelle tecniche di malizia di cui parlavo prima.

    Il commento della collega s6i telefono è stato lapidario ed impietoso, poiché questa nuova infermiera la considera una totale incapace che prima di fare questo lavoro faceva le pulizie nelle case.


    Ed è qui che mi interrogo su che fine abbiano fatto l'empatia e la complicità tra colleghi di lavoro. Chi cammina piano viene messo da parte e criticato, dimenticando che ciascuno di noi ha i suoi tempi di apprendimento e di "reazione" e che nessuno è nato maestro.


    Sulla mia situazione cos'altro potrei dire, se non che le parole del sindacalista mi risuonano in testa ancora adesso "Se non dicevi niente era meglio"; ed io continuo a pensare che nel mondo del lavoro continuino ad esserci quelli che possono sbagliare ma continuano ad essere portati sul palmo della mano, anche quando alzano la testa per farsi le loro ragioni (o presunte tali, vedi la ex collega con regalino che mi ha fatto prima di andarsene) e quelli che invece finiscono dritti nel libro nero e ad ogni inciampata vengono più o meno pesantemente redarguiti, perché ricordiamoci che in fondo non siamo che numeri, ed i numeri non devono avere sentimenti, dignità o problemi esistenziali tali da frenare la corsa del carretto.

    Se poi questi numeri godono di qualche particolare simpatia da parte di qualcuno ai piani alti, la situazione si delinea ancora di più.


    La mia voglia di aprire il libro su quella cara persona è immensa, perché anche lei non è mai stata il pentolino dell'acqua santa ma forse grazie a qualche connivenza, che è stata ipotizzata anche ieri dalla collega che ho sentito al telefono, nonché alla sua abilità sfacciata di manipolare e rigirare le frittate, è sempre riuscita a cadere con il sederino su qualche morbido cuscino.


    Ed il sindacalista, al quale ho accennato questa cosa, mi ha risposto con un detto nemmeno tanto sibillino tipico delle sue parti "Se pparli poco ti spicci, se parli assaie t'mpicci" e questo mi impone il fatto che il 5 agosto mi dovrò limitare a rispondere a quanto mi verrà chiesto, senza rivendicazioni e spiegazioni extra da parte mia, che invece vorrei soltanto dire che tutti questi gesti vendicativi contro di me sono partiti dopo una mia segnalazione su un comportamento sbagliato, descrivendolo dettagliatamente.

    E così dovrò passare per scemo una seconda volta, ingoiando il rospo dicendo "Che buono!".

    Ma purtroppo è anche vero che in certi contesti si rischia di apparire come rancorosi e vendicativi, seppur nel tentativo di fornire qualche spiegazione basata su fatti reali, e tutto questo giocherebbe a mio sfavore.


    L'angolo del poggiolo è sempre li, tra la salvia ed il peperoncino rosso. Ogni tanto mi affaccio, guardo giù e mi immagino cosa potrebbe succedere.

    Purtroppo dopo tanti anni certe cose ti entrano in testa e non riesci più a mandarle via.

    Poi penso a mio figlio, che qualche anno fa ha perso il suo miglior amico precipitato dal quarto piano del palazzo dove viveva con la madre, mentre era solo in casa ed a quanto abbia a lungo sofferto, con convocazione dai Carabinieri che giustamente volevano capire se ci fosse qualche gesto di bullismo dietro oppure no

  • Dopo aver letto tutto con molta attenzione, ammetto che non è chiaro cosa tu abbia fatto davvero.

    Parli di abitudini, di scorciatoie, di "malizie" che, in certi contesti, diventano prassi.

    E lo capisco: non sempre si sopravvive nel lavoro restando fedeli al manuale.

    Ma proprio perché certe zone grigie esistono, credo sia importante distinguere tra ciò che si fa per restare a galla... e ciò che, anche senza volerlo, rischia di generare un danno.


    Racconti una serie di dinamiche interne, consuetudini consolidate, ma non dici mai chiaramente quale sia stato il fatto concreto che ha portato al procedimento disciplinare.

    Parli per ellissi e, in questi casi, credo sia controproducente: quando si omette troppo ciò che conta, spesso è perché, detta tutta, la verità potrebbe rimettere in discussione la narrazione.


    È vero che in molti ambienti si sopravvive con piccoli compromessi operativi.

    Ma una cosa è adattarsi per restare a galla, un'altra è normalizzare una consolidata prassi scorretta.

    E qui, senza mai dirlo apertamente, sembra che un certo limite sia stato superato, altrimenti non si arriverebbe a un procedimento disciplinare.


    Critichi la tua collega, la definisci manipolatrice, parli di favoritismi...

    ma al tempo stesso dici che raccontare tutto sarebbe controproducente, come se ci fosse qualcosa che, se venisse alla luce, metterebbe nei guai anche te.


    Ci sono sicuramente segnali di un conflitto tra colleghi, ma non si tratta solo di scarsa empatia.

    Sembra quasi una dinamica di difesa incrociata, una partita a nascondere le carte.

    Forse il vero problema è che si è rotto un patto di fiducia interna.

    E quando accade, ogni gesto viene letto come minaccia o vendetta.


    C’è del vissuto, c’è del peso, in quello che racconti.

    Ma c’è anche qualcosa che resta in ombra.

    E forse è giusto così, per ora.

    Ma lo ammetto: faccio fatica a orientarmi tra le righe.

    Non per mancanza di empatia, ma per quella sensazione che il nodo vero venga solo sfiorato.


    La frase che mi ha colpito di più è quando dici che raccontare tutto sarebbe controproducente.

    Ecco, lì si apre una fenditura.

    Come se la verità, se detta tutta, potesse ferire anche chi la pronuncia.


    Non giudico. Anche perché non avrei gli elementi per farlo.

    Ma questa sensazione non riesco a ignorarla.


    Spero davvero che, in mezzo a questo equilibrio fragile tra silenzi e conseguenze, tu riesca a trovare un modo per uscirne senza conseguenze.

    Non sempre esiste una via giusta.

    Ma esiste sempre una via onesta.

    E a volte, basta quella.

    Teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza soffiamo via il resto. George Eliot

  • Parte 1)


    Mi ha accusato di usare un materasso per dormire alla notte (mentre che lei usava un materassino di una barella non lo ha detto, eh?); è una prassi storica, anche se non permessa, che da sempre viene portata avanti dai colleghi di turno che si dividono la notte e comunque non si dorme, almeno io che fatico a dormire anche a casa mia figuriamoci se riesco a farlo al lavoro.

    Mi ha accusato di tenere tutte le luci spente per dormire; io in realtà spegnevo le luci inutili come quelle di bagni del personale, magazzini e studi non presidiati, è una mia mania e lo faccio anche di giorno.

    Diverse volte in passato alcuni degenti mi chiesero addirittura di spegnere anche quelle deboli luci notturne che rischiarano il corridoio del reparto, poiché fonte di disturbo per loro e non riuscivano a riposare bene, per cui mi era rimasta questa abitudine ma preciso che in diversi punti del suddetto corridoio ci sono luci di emergenza accese 24 ore al giorno (vie di fuga ed estintori) che non si possono disattivare e che già da sole provvedono ad illuminare.

    Ed in ogni modo io provvedo sempre ad accendere le luci blu installate ad ogni testata del letto, che illuminano debolmente la stanza e che spesso al mattino trovo spente perché ai degenti danno fastidio, per cui le spengono senza dirci nulla.


    Ha poi segnalato un mio brutto vizio, questo lo ammetto, che è quello che accostare il nome di qualche divinità a quello di qualche animale, ma sono cose che davanti ai colleghi sono sempre successe senza un mio intento prevaricatorio nei loro confronti, ma esclusivamente come sfogo in caso di situazioni particolarmente pesanti e logoranti (caos, stanchezza, preoccupazioni per problemi personali legati a divorzio e conseguenze, non saper più da quale parte girarsi nel marasma e così via). Qualche volta mi è successo (anche se non ne ho un ricordo preciso) davanti a qualche paziente disorientato, ma conoscendomi è sicuramente stato come un certo pensare a voce alta senza rendersi conto di cosa ti esce dalla bocca, anche lì senza intenti provocatori o di mancanza di rispetto verso la persona nel letto, che non ha nessuna colpa.

    Su questi due punti riconosco di aver sbagliato in pieno e non cerco scuse. E comunque mi piacerebbe raccontare quante volte un certo mio superiore mi bestemmiava urlando a mezzo metro dalla faccia, ma io non ho mai voluto segnalare nulla ed ingoiavo tutto per il quieto vivere.

  • Parte 2)


    C'era poi un paziente allettato e plurilesionato, sottoposto a nutrizione artificiale che era causa di scariche diarroiche massive, con la necessità di ripetere le lunghe medicazioni ad ogni scarica.

    Mi è stato contestato che mi sono rivolto a quest'uomo dicendogli una frase tipo "Sei pieno di m.... ", ma anche qui non ho un ricordo dell'episodio e conoscendomi vedrei tutto il contesto come il risultato di una frase riportata solo in parte (potrei benissimo aver detto qualcosa tipo "Oh mamma mia, che disastro, sei pieno di m.... " senza voler accusare o deridere la persona, ma solo in riferimento a quel tipo di nutrizioni che spesso sono causa di episodi di intolleranza intestinale. Che motivo avrei dovuto avere quindi per dileggiare o colpevolizzare quel paziente, che non ne poteva nulla?

    Anche qui è il risultato dello stesso difetto di prima, ovvero pensare ed avere impulsivamente senza contare fino a 1000.


    La ex collega poi ha segnalato che per mobilizzare quel signore io avrei usato maniere troppo brusche e "maltrattanti" nei confronti di questo degente. Da parte mia non c'è mai stato alcun intento violento nel mobilizzarlo, solo che quando ti ritrovi a dover mobilizzare una persona che non collabora e magari "retropulsa" e si irrigidisce, involontariamente e senza rendersene conto si fa qualche movimento all'apparenza brusco ma che serve per posizionarlo in modo che la medicazione sia il più ordinata possibile. E magari tu sei lì, con la schiena a pezzi per dolori che ti trascini dietro da lungo tempo, insieme alla stanchezza che accumuli dopo che per settimane o mesi sei riuscito a dormire (ovviamente a casa) quattro ore e mezza in due giorni.


    E poi ha anche detto che avrei usato gli stessi modi bruschi durante le manovre di contenzionamento. Ci sono persone che come hanno un braccio momentaneamente libero vanno subito a gran velocità a sfilarsi dispositivi medici, cateteri venosi centrali, periferici e sondini, per cui a volte viene d'istinto fare le cose in fretta per limitare il danno e non ritrovarsi poi a dover riposizionare tutto quanto, magari dovendo scomodare medici di guardia, anestesisti e radiologi reperibili.


    Cos'altro è andata a riferire poi? Che di notte non faccio i giri di controllo (non è vero, perché quando li faccio non vado a riferirlo al/alla collega, li faccio e basta.


    Durante un turno di notte c'era una signora collegata ad una pompa infusionale, che dava spesso l'allarme in quanto la degente muoveva il braccio. Io quella notte ero nella solita cucina a guardare il soffitto ed ammetto di non aver udito il "Beep" in quanto sovrastato da altri rumori ambientali (aria condizionata, che produce un forte rimbombo). La protesta della ex collega è stata che si era dovuta "alzare' quindici volte per questo allarme (quindi significa che anche tu ti eri messa giù sul materasso, vero?) e comunque starebbe stato più corretto venirmi a chiamare spiegandomi la situazione e richiedendo anche il mio supporto, ma evidentemente stava già facendo il computo delle cose da segnalare prima di andarsene a lavorare in un altro ospedale.


    Aggiungo anche due dettagli, che devo capire se sono stati riportati "per via ufficiale" o se si sono limitati ad episodi di pettegolezzo; da quanto mi è stato raccontato da altre colleghe sarebbe andata a dire che io ci avrei provato con lei (non mi ricordo di averlo mai fatto, ma comunque potrebbe essere mia figlia e di sicuro non ci provo con una che ha il compagno che lavora nel nostro stesso reparto) e che avrei visionato film porno sul PC aziendale, cosa impossibile in quanto molti siti sono bloccati a livello informatico. In ogni modo se volete vedere che film guardavo cercate su YouTube "Natale Lauria Cinema" e capirete cosa stavo guardando (avete presente la scena di Fantozzi quando insieme alla Pina vanno a vedere il film "Le Casalingue"?).


    Questo è veramente tutto; spero di non aver dato troppi dettagli che mi facciano riconoscere da qualche occasionale frequentatore di passaggio.

  • Credo nel peso della stanchezza che racconti.

    Nella solitudine che affiora tra le righe.

    Nella fatica di chi, notte dopo notte, ha tenuto insieme lavoro e sopravvivenza personale.


    Ma credere non significa giustificare tutto.

    E se la tua intenzione era far luce su scorrettezze altrui, devi accettare che il riflettore si sia girato anche su di te.


    Hai segnalato una collega.

    Forse per senso di giustizia.

    Forse per rabbia.

    Forse solo perché eri troppo stanco per reggere ancora il silenzio.

    Ma hai rotto un equilibrio.

    E chi rompe gli equilibri, lo sa: ne paga anche le conseguenze.


    Ci sono cose, Zeta, che vale la pena chiarire per riportare a fuoco il contesto.

    Chi fa il turno di notte ha diritto a una poltrona ergonomica, che consenta di restare vigile in una posizione comoda e sicura. Ma non è previsto alcun materasso: riposare non è dormire, e dormire non è assentarsi.

    Il presidio di notte non è facoltativo: il turno si fa in medicheria, non in cucina. Allontanarsi stabilmente da lì può essere considerato abbandono del reparto, anche senza malizia.

    E per quanto riguarda le luci, invece, va ricordato che quelle sulle testate del letto sono a gestione del paziente: può tenerle accese o spente secondo le sue esigenze. Il personale può certo contribuire al comfort, ma non decidere unilateralmente.


    Infine, quella frase "sei pieno di m..." può anche non essere nata da disprezzo, ma da un’esasperazione che ti è sfuggita di mano, non si cancella con una spiegazione postuma.

    Le parole dette al letto di un paziente, specie se fragilissimo, restano. Non solo per chi le riceve, ma anche per chi le pronuncia.


    La tua è una resistenza e si sente che qualcosa dentro si te si è incrinato.

    E lo capisco: quando si arriva a questo punto, spesso è perché non si è più riusciti a chiedere aiuto quando serviva, e allora si agisce, si denuncia, si implode.


    Forse, sei stato proprio tu il primo a rompere quel patto, quel tacito consenso dove ogniuno chiudeva un occhio sulle mancanze dell'altro.

    E adesso tutto è saltato.

    Serviva lucidità.

    Serviva distinguere: tra chi ha sbagliato per stanchezza e chi ha reso lo sbaglio un’abitudine, tra chi si è lasciato scappare una frase e chi ha costruito intorno a quella leggerezza.


    Ti auguro che questa frattura, che oggi sembra solo punizione, possa diventare occasione per rimettere in fila le cose.

    Non per difenderti, ma per capire fino in fondo dove hai smesso di proteggerti davvero.

    Teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza soffiamo via il resto. George Eliot

  • Fin da subito ho riconosciuto di aver sbagliato, quando ho parlato di abitudini incancrenite che si portano avanti senza rendersene conto.

    Però vorrei precisare che:


    >> Il presidio di notte non è facoltativo: il turno si fa in medicheria, non in cucina. Allontanarsi stabilmente da lì può essere considerato abbandono del reparto, anche senza malizia.


    Nella cucina, distante circa una quindicina scarsa di metri dalla medicheria, è installato un avvisatore acustico decisamente rumoroso e luminoso che si attiva alla chiamata dei pazienti, quindi in qualsiasi momento avessero "suonato" chiunque sta lì lo sente. Diverso sarebbe stato se qualcuno si chiudesse in un magazzino dove non si sente nulla.


    >> Chi fa il turno di notte ha diritto a una poltrona ergonomica, che consenta di restare vigile in una posizione comoda e sicura.


    Vale anche per chi si prende il materassino di una barella col lenzuolo sopra e lo mette sul pavimento, accusando poi il collega di mettersi sul materasso in cucina?


    >> E per quanto riguarda le luci, invece, va ricordato che quelle sulle testate del letto sono a gestione del paziente: può tenerle accese o spente secondo le sue esigenze. Il personale può certo contribuire al comfort, ma non decidere unilateralmente.


    Attenzione: io stavo parlando di luci notturne installate nelle testate dei letti, non di luci ad alta luminosità. Diciamo che in questo caso è stata una mia iniziativa (che anche altri colleghi/e mettono o mettevano in pratica da sempre) che inizialmente mi era stata chiesta da qualche degente poichè disturbato, poi è diventata una mia abitudine ma non per secondi fini. Anche qui abitudini incancrenite portate avanti senza rendersene conto.


    >> Infine, quella frase “sei pieno di m…” può anche non essere nata da disprezzo, ma da un’esasperazione che ti è sfuggita di mano, non si cancella con una spiegazione postuma.


    Non ricordo con precisione di aver detto quella frase, ma faccio comunque ammenda poichè a volte ho il difetto di "pensare a voce alta" agendo impulsivamente; potrebbe anche essermi uscita di bocca in un contesto del tipo "Oh mio Dio che disastro, sei pieno di... " ma comunque, come hai sottolineato anche tu, nata da un'esasperazione sfuggitami di mano. Non avrei mai il coraggio di dire con cattiveria una cosa del genere a qualcuno. Dicendo questo non cerco giustificazioni da un tanto al chilo, ma credo che contestualizzare per bene i fatti sia importante.


    >> La tua è una resistenza e si sente che qualcosa dentro si te si è incrinato.

    E lo capisco: quando si arriva a questo punto, spesso è perché non si è più riusciti a chiedere aiuto quando serviva, e allora si agisce, si denuncia, si implode.


    Siamo soltanto numeri, nient'altro che "risorse umane" (termine che descrive lo scarso valore esistenziale che viene attribuito ad un lavoratore, che al pari di un qualsiasi oggetto quando si guasta viene buttato da parte e sostituito con qualcos'altro).


    >> Forse, sei stato proprio tu il primo a rompere quel patto, quel tacito consenso dove ogniuno chiudeva un occhio sulle mancanze dell'altro. E adesso tutto è saltato. Serviva lucidità.


    Quando si lavora con una persona troppo sicura di sé alla quale, all'ennesimo rimprovero ricevuto per varie dimenticanze cerchi, con tutte le buone maniere del caso, di trasmettere un messaggio tipo "Cerchiamo di fare più attenzione, così evitiamo che poi ci vengano a dire qualcosa" e ti senti rispondere con un bel "Me ne f∙∙∙o!" e tanti altri giudizi unilaterali sull'organizzazione di certe attività di reparto consolidate e concordate da anni, cosa puoi fare per tutelarti da ulteriori "sviste" dovute al suo menefreghismo/senso di superiorità su tutto e tutti?
    Stare zitti mi sembra più un arrendersi passivamente di fronte ad un atteggiamento basato totalmente sulla noncuranza e sulla presunzione di saper fare le cose meglio di chiunque altro. Guai ad andare ad insegnare al prete a dir messa.


    >> Ti auguro che questa frattura, che oggi sembra solo punizione, possa diventare occasione per rimettere in fila le cose. Non per difenderti, ma per capire fino in fondo dove hai smesso di proteggerti davvero.


    Il mio unico interesse ora è lasciarmi alle spalle questa storia e far passare questi otto anni e mezzo il più velocemente possibile (fragorose risate del pubblico). Io ho smesso di proteggermi quando ho deciso di non nascondermi dietro nessuna maschera e di dire quello che penso.

    C'è chi ha sbagliato per stanchezza e chi invece per strafottenza; se le cose poi si rompono è un rischio da tenere sempre presente ed io, da totale ingenuo, non ho messo sul piatto tanti fattori "ritorsivi" fatti da una persona che fin da subito era stata presa in antipatia da molti per il suo modo di fare, comprensivo di altri episodi definibili come pugnalate alle spalle avvenuti in altri contesti e contro altri colleghi, più fortunati di me.

    Questo non cambia la situazione, ha avuto più furbizia di me sicuramente e si è visto.

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