Sonetto LXIV
e lì dalle tenebre mi sollevai al tuo petto,
senz'essere e senza sapere andai alla torre del frumento,
sorsi per vivere tra le tue mani,
mi sollevai dal mare alla tua gioia.
Neruda
Sonetto LXIV
e lì dalle tenebre mi sollevai al tuo petto,
senz'essere e senza sapere andai alla torre del frumento,
sorsi per vivere tra le tue mani,
mi sollevai dal mare alla tua gioia.
Neruda
Ogni volta che passo da quei viali, o piazze con i perimetri di palme tutto intorno, non posso non pensare a questa poesia.
Palme
Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi sono ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che trascorre,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige la sua aspra colonna.
E per questo le palme sono allegre
come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
inni alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.
Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi. È trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, come un intimo nido,
la meraviglia dei sopravvissuti
che ringraziano l’aria, e poi scoppiano
per l’alta gioia in mezzo al deserto.
(Juan Vicente Piqueras)
Lettera dal balcone
Ti scrivo dal balcone
dove resto ancora un poco questa sera
a guardare l'orto al sole di settembre
a mangiare pane e olio e foglie piccole di basilico
ti scrivo meno fiera di quello che vorresti
sono una donna forte sì
ma con anche continue tentazioni di non esserlo
di lasciarmi sciogliere d'amore al sole
e carezzarti e baciarti un po' di più di quello che tu vuoi
ti scrivo dal balcone
guardando il fico pieno di frutti
e il pero con le foglie malate
ho qualche pensiero triste
e due o tre sereni.
Vivian Lamarque
Guai a chi avrà amato solo corpi, forme, apparenze.
La Morte gli toglierà tutto.
Cercate di amare le anime.
Le ritroverete.
(Victor Hugo)
"Mar Novo"
È un inno alla vita, alla speranza e al cambiamento. La poetessa utilizza l'immagine del mare come metafora della vita stessa, con tutte le sue tempeste e le sue calme, le sue profondità e le sue superfici. Il "mare nuovo" rappresenta quindi la possibilità di un rinnovamento, di un futuro diverso e migliore.
Mar novo, mar de dentro,
Mar que é mais que mar,
Vem nas minhas veias,
Vem no meu olhar.
Mar que é mais que mar,
Vem nas minhas mãos,
Vem no meu falar.
Mar que é mais que mar,
Vem no meu pensar.
Mar novo, mar de dentro,
Vem nas minhas entranhas,
Vem no meu cantar.
Mare nuovo, mare interiore,
Mare che è più del mare,
Vieni nelle mie vene,
Vieni nel mio sguardo.
Mare che è più del mare,
Vieni nelle mie mani,
Vieni nel mio parlare.
Mare che è più del mare,
Vieni nel mio pensare.
Mare nuovo, mare interiore,
Vieni nelle mie viscere,
Vieni nel mio cantare.
Sophia de Mello Breyner Andresen
E poi fate l’amore.
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo
i baci lenti sulla bocca,
sul collo,
sulla pancia,
sulla schiena,
i morsi sulle labbra,
le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi,
vestiti tolti insieme alle paure,
baci sulle debolezze,
sui segni di una vita
che fino a quel momento
era stata un po’ sbiadita.
Intendo dita sui corpi,
creare costellazioni,
inalare profumi,
cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano
allo stesso ritmo.
E poi sorrisi,
sinceri dopo un po’
che non lo erano più.
Ecco,
fate l’amore e non vergognatevi,
perché l’amore è arte,
e voi i capolavori.
Alda Merini
Non è una poesia ma...
Se anche parlassi le lingue
Degli uomini e degli angeli,
ma non avessi Amore,
sarei come il bronzo che risuona
o il cimbalo che tintinna.
E se anche avessi il dono
Della profezia e conoscessi
Tutti i misteri e tutta la scienza;
se anche possedessi
una fede così grande
da trasportare le montagne,
ma non avessi Amore,
io non sarei nulla.
E se anche distribuissi
Tutti i miei averi ai poveri
e offrissi il mio corpo
perché fosse bruciato,
ma non avessi Amore,
niente di tutto ciò mi gioverebbe.
L’Amore è paziente, è benigno;
l’Amore non arde di gelosia,
non si vanagloria,
non s’insuperbisce,
non si comporta
in maniera sconveniente,
non persegue il proprio interesse,
non si indigna,
non nutre alcun risentimento
per il male ricevuto,
non si rallegra dell’ingiustizia,
ma gioisce della verità.
Tutto ammette, tutto crede,
tutto spera, tutto sopporta.
L’Amore non avrà mai fine.
Invece le profezie scompariranno,
il dono delle lingue cesserà,
la scienza svanirà.
Perché la nostra conoscenza
È imperfetta,
e imperfetto è anche quello
che profetizziamo.
Ma quando verrà
Ciò che è perfetto,
tutto quello che è imperfetto
sarà annullato.
Quando ero bambino,
parlavo da bambino,
sentivo da bambino.
Ora vediamo come in uno specchio,
in maniera oscura,
ma allora vedremo in modo chiaro,
faccia a faccia;
adesso conosco
soltanto in modo imperfetto,
allora invece conoscerò
come sono conosciuto.
Ora, dunque, rimangono
La Fede, la Speranza e l’Amore.
Questi tre.
Ma quello più importante di tutti
è l’Amore.
Non è una poesia ma...
Non si può non amare il maestro Cristo e quello che ha ispirato (non il dogma religioso ovviamente).
Dice che era un bell’uomo
E veniva, veniva dal mare
Parlava un’altra lingua però sapeva amare
E quel giorno lui prese mia madre sopra un bel prato
L’ora più dolce prima d’essere ammazzato
Così lei restò solo nella stanza,
La stanza sul porto
Con l’unico vestito, ogni giorno più corto
E benché non sapesse il nome
E neppure il paese
M’aspettò come un dono d’amore
Fino dal primo mese
Compiva sedici anni
Quel giorno la mia mamma
Le strofe di taverna
Le cantò a ninna nanna
E stringendomi al petto che sapeva,
Sapeva di mare, giocava a far la donna
Con il bimbo da fasciare
E forse fu per gioco o forse per amore
Che mi volle chiamare come Nostro Signore
Della sua breve vita il ricordo,
Il ricordo più grosso, è tutto in questo nome
Che io mi porto addosso
E ancora adesso che gioco a carte
E bevo vino,
Per la gente del porto
Mi chiamo Gesù Bambino
L. Dalla
P. Pallottino
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.
Non conoscendosi, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da molto tempo potevano incrociarsi?
Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
in qualche porta girevole?
uno « scusi » nella ressa?
un « ha sbagliato numero » nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.
Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.
Non ancora pronto del tutto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
tagliava loro la strada
e soffocando una risata
con un salto si scansava.
Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o lo scorso martedì
una fogliolina volò via
da una spalla a un’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell’infanzia?
Vi furono maniglie e campanelli
su cui anzitempo
un tocco si posava su un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.
Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.
(Wisława Szymborska)
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