Messaggi di CourtneySunshine

    Credo che il poliamore esista, ma che richieda una grande apertura mentale, una grande sicurezza di sé e un sapersi staccare dai concetti base tipo "amore = possesso, esclusività, controllo"

    Anche io credo che il poliamore possa esistere laddove ci siano queste caratteristiche e presupposti.

    Personalmente non mi è mai capitato di amare contemporaneamente più persone, ma riconosco che, in un contesto di fiducia e consapevolezza reciproca, possa essere una forma di relazione possibile. Richiede sicuramente molto equilibrio, comunicazione costante e una gestione delle emozioni molto diversa da quella a cui siamo abituati.

    Io, però, non credo che riuscirei ad accettarlo; semplicemente, non ne sarei capace.

    Credo nel peso della stanchezza che racconti.

    Nella solitudine che affiora tra le righe.

    Nella fatica di chi, notte dopo notte, ha tenuto insieme lavoro e sopravvivenza personale.


    Ma credere non significa giustificare tutto.

    E se la tua intenzione era far luce su scorrettezze altrui, devi accettare che il riflettore si sia girato anche su di te.


    Hai segnalato una collega.

    Forse per senso di giustizia.

    Forse per rabbia.

    Forse solo perché eri troppo stanco per reggere ancora il silenzio.

    Ma hai rotto un equilibrio.

    E chi rompe gli equilibri, lo sa: ne paga anche le conseguenze.


    Ci sono cose, Zeta, che vale la pena chiarire per riportare a fuoco il contesto.

    Chi fa il turno di notte ha diritto a una poltrona ergonomica, che consenta di restare vigile in una posizione comoda e sicura. Ma non è previsto alcun materasso: riposare non è dormire, e dormire non è assentarsi.

    Il presidio di notte non è facoltativo: il turno si fa in medicheria, non in cucina. Allontanarsi stabilmente da lì può essere considerato abbandono del reparto, anche senza malizia.

    E per quanto riguarda le luci, invece, va ricordato che quelle sulle testate del letto sono a gestione del paziente: può tenerle accese o spente secondo le sue esigenze. Il personale può certo contribuire al comfort, ma non decidere unilateralmente.


    Infine, quella frase "sei pieno di m..." può anche non essere nata da disprezzo, ma da un’esasperazione che ti è sfuggita di mano, non si cancella con una spiegazione postuma.

    Le parole dette al letto di un paziente, specie se fragilissimo, restano. Non solo per chi le riceve, ma anche per chi le pronuncia.


    La tua è una resistenza e si sente che qualcosa dentro si te si è incrinato.

    E lo capisco: quando si arriva a questo punto, spesso è perché non si è più riusciti a chiedere aiuto quando serviva, e allora si agisce, si denuncia, si implode.


    Forse, sei stato proprio tu il primo a rompere quel patto, quel tacito consenso dove ogniuno chiudeva un occhio sulle mancanze dell'altro.

    E adesso tutto è saltato.

    Serviva lucidità.

    Serviva distinguere: tra chi ha sbagliato per stanchezza e chi ha reso lo sbaglio un’abitudine, tra chi si è lasciato scappare una frase e chi ha costruito intorno a quella leggerezza.


    Ti auguro che questa frattura, che oggi sembra solo punizione, possa diventare occasione per rimettere in fila le cose.

    Non per difenderti, ma per capire fino in fondo dove hai smesso di proteggerti davvero.

    Hai scritto questo messaggio con un tono che, se anche non fosse stato il tuo intento, trasuda un disprezzo che fa fatica a essere ignorato.

    Non tanto per la situazione in sé, che potrebbe anche essere complessa e comprensibile, se raccontata con un minimo di coscienza emotiva, ma per le parole che hai scelto.

    "Tizia", "mio malgrado", "non attraente", "svalutare".

    Come se l’altra persona fosse un oggetto da classificare in base all’effetto che ha sul tuo status.

    Come se il sesso fosse un'esercitazione su un corpo "utile" ma sacrificabile, da cui poi liberarsi per puntare a qualcosa di "meglio".


    Ti chiedi "Come posso fare?"

    Ma la domanda vera dovrebbe essere: che danno ho fatto?

    Perché al centro di tutto non c'è "lei che vuole una relazione" e "tu che non vuoi impegnarti".

    C'è una persona che è stata usata.

    Non perché tu non abbia il diritto di non volerla, certo che ce l’hai, ma perché hai accettato un'intimità senza considerare nemmeno per un secondo che per l'altra parte potesse avere un peso.

    Hai fatto sesso con lei per "imparare", ma sei sceso a quel patto senza mai chiederti se l'altra persona fosse consenziente a fare da strumento.

    Non consenziente al sesso, ma consenziente al ruolo che tu, segretamente, le avevi assegnato.


    Ovviamente non sei obbligato a restare, se non senti niente.

    Ma sei tenuto a trattare con rispetto chiunque si sia avvicinato a te con fiducia e vulnerabilità.


    E mi dispiace dirlo ma questo rispetto, qui, è totalmente assente.


    Non c’è traccia di empatia in quello che scrivi.

    Solo una rincorsa al "decoro", al desiderio di non farti vedere con una donna che, ai tuoi occhi, non è "abbastanza".

    Mi auguro che tu almeno ti sia chiesto se sei stato abbastanza per meritare quella fiducia.

    E cosa racconta di te questo bisogno di essere visto con "una più bella", come se le donne fossero medaglie al valore e non esseri umani.


    Le ragazze più belle non ti guarderanno di più se accanto a te c'è una che considerano bella, ma sicuramente ti guarderanno di meno se percepiscono che sei il tipo che scarta gli altri come carta da imballaggio appena ha finito di usarli.


    Prima di capire "come lasciarla", forse dovresti chiederti: chi sei diventato per averla presa così poco sul serio?

    E se sei pronto a crescere abbastanza da non trattare più nessuno così.

    Dopo aver letto tutto con molta attenzione, ammetto che non è chiaro cosa tu abbia fatto davvero.

    Parli di abitudini, di scorciatoie, di "malizie" che, in certi contesti, diventano prassi.

    E lo capisco: non sempre si sopravvive nel lavoro restando fedeli al manuale.

    Ma proprio perché certe zone grigie esistono, credo sia importante distinguere tra ciò che si fa per restare a galla... e ciò che, anche senza volerlo, rischia di generare un danno.


    Racconti una serie di dinamiche interne, consuetudini consolidate, ma non dici mai chiaramente quale sia stato il fatto concreto che ha portato al procedimento disciplinare.

    Parli per ellissi e, in questi casi, credo sia controproducente: quando si omette troppo ciò che conta, spesso è perché, detta tutta, la verità potrebbe rimettere in discussione la narrazione.


    È vero che in molti ambienti si sopravvive con piccoli compromessi operativi.

    Ma una cosa è adattarsi per restare a galla, un'altra è normalizzare una consolidata prassi scorretta.

    E qui, senza mai dirlo apertamente, sembra che un certo limite sia stato superato, altrimenti non si arriverebbe a un procedimento disciplinare.


    Critichi la tua collega, la definisci manipolatrice, parli di favoritismi...

    ma al tempo stesso dici che raccontare tutto sarebbe controproducente, come se ci fosse qualcosa che, se venisse alla luce, metterebbe nei guai anche te.


    Ci sono sicuramente segnali di un conflitto tra colleghi, ma non si tratta solo di scarsa empatia.

    Sembra quasi una dinamica di difesa incrociata, una partita a nascondere le carte.

    Forse il vero problema è che si è rotto un patto di fiducia interna.

    E quando accade, ogni gesto viene letto come minaccia o vendetta.


    C’è del vissuto, c’è del peso, in quello che racconti.

    Ma c’è anche qualcosa che resta in ombra.

    E forse è giusto così, per ora.

    Ma lo ammetto: faccio fatica a orientarmi tra le righe.

    Non per mancanza di empatia, ma per quella sensazione che il nodo vero venga solo sfiorato.


    La frase che mi ha colpito di più è quando dici che raccontare tutto sarebbe controproducente.

    Ecco, lì si apre una fenditura.

    Come se la verità, se detta tutta, potesse ferire anche chi la pronuncia.


    Non giudico. Anche perché non avrei gli elementi per farlo.

    Ma questa sensazione non riesco a ignorarla.


    Spero davvero che, in mezzo a questo equilibrio fragile tra silenzi e conseguenze, tu riesca a trovare un modo per uscirne senza conseguenze.

    Non sempre esiste una via giusta.

    Ma esiste sempre una via onesta.

    E a volte, basta quella.

    "Sempre pronti ad osare l’inosabile".


    Era il tuo modo di restare vigile tra le righe.

    Ci sono voci che si allontanano piano,

    ma restano incise come certe frasi sul margine di un libro.


    Da un po’ non ti si legge più,

    ma chi ha tracciato sentieri con le parole

    lascia impronte che non si cancellano.

    Come promemoria silenzioso,

    per chi continua a cercare il proprio passo.


    Spero che tu stia bene, ovunque ti trovi.

    Ho letto le tue parole più volte, come si fa con le lettere che contengono una fatica profonda.

    E quello che si percepisce è tanto.

    C’è ansia, sì. C’è amarezza. Ma c’è anche una lucidità che in realtà è una forza, anche se adesso ti sembra una condanna.

    Una di quelle che, quando tutto intorno traballa, ti tiene ancora in piedi.


    Capisco bene il senso di colpa che racconti.

    Capisco quella voce che paragona il tuo malessere a un’epoca diversa, dove "i padri non si arrovellavano", dove sembrava tutto più semplice, più netto.

    Ma non sei meno forte di lui.

    I tempi cambiano, e con loro i pesi.


    Capisco anche la paura di una sanzione.

    Soprattutto se, oltre al danno, rischia di arrivare anche la beffa.

    Ma vedi… alzare la testa, in certi ambienti, fa rumore.

    E chi è abituato al tacito consenso, teme chi rompe la quiete apparente.

    Il tuo gesto però non è stato uno sbaglio.

    È stato un atto di dignità.

    E la dignità, a lungo termine, fa meno danni del compromesso.


    Il poggiolo.

    Quel riferimento così crudo, così visivo, mi ha lasciata senza fiato.

    Hai usato l’immagine di chi è arrivato davvero al bordo.

    Eppure, anche lì, stai resistendo.

    Nonostante tutto.


    Otto giorni sono lunghi, sì.

    Quando si è in attesa, ogni ora pesa come un macigno.

    Ma possono anche essere otto giorni per respirare.

    Per concederti, se riesci, uno spazio che non sia solo attesa e sospensione, ma anche pausa da te stesso e da ciò che ti sta accadendo.


    Tu chiedi poco: serenità, lealtà, silenzio buono.

    Ma quel poco, lo so, a volte sembra irraggiungibile.

    Non ho soluzioni semplici da offrirti.

    Ma una cosa posso dirtela: quello che ti sta accadendo non ti definisce.

    E il dolore che ora sembra stringere tutto, un giorno sarà soltanto una stanza che avrai attraversato.


    Quando vuoi, se vuoi, ci sono.

    Per scrivere, per ascoltare, o semplicemente per restare sul poggiolo, ma con lo sguardo rivolto altrove.

    Verso qualcosa che ancora chiama. Anche piano, anche da lontano.


    Se ti va, raccontaci cos’è accaduto.

    Qual è stato il motivo del provvedimento.

    Non per giudicare, non è questo il luogo, ma per offrirti, se possibile, qualche consiglio pratico. O semplicemente un sostegno che non giudica, ma accompagna.