Messaggi di La mente mente

    Vorrei trovare un motivo per continuare a vivere ma tutto ciò che mi viene in mente ora sono le diverse ragioni per non andare avanti.


    Tutti evolvono e progrediscono nel loro percorso, solo io rimango impantanato, unicamente per colpa mia, naturalmente.

    Talvolta la rabbia che scaturisce dalla consapevolezza di essere diverso dagli altri diventa insopprimibile, non tanto per quanto riguarda l'intensità del sentimento che questo pensiero suscita, quanto piuttosto dalla sua manifestazione in occasioni banali: in un batter d'occhio ci si ritrova in compagnia di persone che raccontano dei loro trascorsi, delle loro esperienze con entusiasmo, nostalgia e un pizzico d'imbarazzo, quell'imbarazzo di chi si rende conto di aver un po' abusato dell'indulgenza plenaria che solo la fanciullezza può farsi languidamente dispensare con ancestrale naturalezza. Se dalle fonti di questo supremo appagamento avessi attinto anch'io quando gli anni della scoperta me l'avrebbero permesso, non avrei motivo per struggermi così tanto per un disagio così impetuoso, tuttalpiù avrei provato indifferenza, qualche immedesimazione qua e là. Invece mi ritrovo a vagare confuso nella notte con lo stomaco sottosopra e il fiato corto per il turbamento. Posso simulare una curiosità, ma tale sforzo si rende vano in quanto mi è oltremodo impossibile nascondere l'irritazione. Ma non c'è motivo razionale per provare questa sensazione, peraltro poco definibile, in nessun modo etichettabile con precisione: che sia rimpianto? Che sia angoscia? Che sia depressione? Da dove deriva questa nausea, che si abbatte sulle mie viscere come una pugnalata? Forse è solo la vita.

    Quello di questo thread è un argomento che mi sta piuttosto a cuore in quanto riguardante una delle principali caratteristiche del mio stile di vita: la reclusione. Non ricordo un periodo nel quale io non l'abbia agognata, cercata, e, soprattutto negli ultimi anni, realizzata. Il lockdown è stato il colpo di grazia che ha annullato le pochissime occasioni di uscita (i.e. lezioni universitarie), uscite che, nonostante la loro esiguità, non sono ancora oggi rimpiante dal sottoscritto, il quale ha (ho) abbracciato una condizione da pieno recluso, rammaricandomi però che la crisi depressiva e esistenziale che mi ha travolto abbia rovinato una eventualità altrimenti ben accolta. Forse vi era un tacito equilibrio che vedeva nelle poche uscite (e nell'altrettanto poca socialità) un correttivo, un fattore stabilizzante dell'umore che non faceva pesare il mio isolamento.


    Se osservo gli anni della mia crescita e sviluppo a ritroso, mi rendo conto che l'ambiente domestico abbia rappresentato innanzitutto un rifugio dai coetanei, un rifugio da un ambiente esterno che mi ha sempre visto "diverso", in quanto più sensibile, più introverso, meno "chiassoso". Alla fine, questa era la mia visione di quel mondo al quale non sentivo in cuor mio di appartenere. La mia curiosità intellettuale mi portava a esplorare mondi (letterari, virtuali, ecc.) che costituivano un'evasione dal contesto in cui mi trovavo, e mi rassicurava in maniera decisiva: il mio non era il migliore dei mondi possibili, parafrasando il Candido di Voltaire, al contrario si trattava di qualcosa da superare, un velo di Maya da squarciare, e per farlo bastava attendere, costruirsi un futuro in linea con la mia indole, che mi avrebbe portato altrove, in un ambiente a me più congeniale.


    In quegli anni, complice la mia attitudine studiosa, ho reciso quasi tutti i legami con l'esterno, dedicandomi allo studio "matto e disperatissimo" e riporre (segretamente) le speranze di una socialità più soddisfacente più in là con il tempo. Ma in tutti questi anni, questa condotta di vita non ha rappresentato affatto un motivo di sofferenza. Al contrario, dell'ambiente domestico notavo solo i pregi: una maggiore libertà, tempo libero in abbondanza (a causa della mancanza di incombenze mondane) per dedicarmi a passatempi culturali di natura prevalentemente solitaria, controbilanciati ovviamente da occasioni di uscite saltuarie e la mia presenza (comandata) in contesti sociali (liceo, università, ecc.), dalle quali uscivo, da buon introverso, alquanto drenato di energie, che ricaricavo non appena tornavo alle mie attività solitarie che mi riservavano varie intime soddisfazioni.


    Questo equilibrio, me ne rendo contro solo a posteriori, era molto più fragile di quanto pensassi: è bastato il minimo scossone (un vero e proprio burnout al quale è seguita la clausura del lockdown che ha un po' "cristallizzato" tale condizione) per ripensare questo modello e rivedere alcune priorità. Per la prima volta, infatti, non guardo con timore o ritrosia le occasioni di socialità, ma anzi, quasi mi rammarico per la loro assenza (o per meglio dire, rifiuto) negli ultimi anni. Ma poi mi guardo attorno, e mi rendo conto il motivo per il quale ho rinunciato ad uscire di casa: l'ambiente, le persone, sono rimaste le stesse, con la stessa mentalità di paese, dove la sensibilità, la cultura e la creatività sono viste con sospetto, sono quasi un disvalore. Questo distacco si è acuito man mano che l'isolamento si è protratto nel corso degli anni, durante i quali inevitabilmente il mio percorso e quello degli altri divergeva sempre più, creando un circolo vizioso e ancora un maggiore isolamento.


    Non mi pento affatto delle mie scelte, sono diventato ciò che sono (con i miei pregi e difetti) grazie alla conduzione di questo stile di vita che, inter alia, mi ha permesso di guardare dall'esterno le dinamiche sociali e sviluppare un distacco tale da possedere una weltanschauung critica e razionale, che dubito avrei ottenuto frequentando certi buzzurri che ronzano per le strade del paesello (senza offesa per il paesello, che è molto grazioso e rinomato presso i turisti, italiani e non ^^ ). Ora resta da recuperare l'equilibrio perduto e fondarlo su basi più solide. A questo punto non posso fare altro che mettermi a lavorare per un futuro personale migliore, che possa portarmi a frequentare persone più affini in contesti nuovi, dove dunque possa in qualche modo togliermi alcune soddisfazioni e realizzazioni anche nel campo della socialità. Non credo ci sia molta scelta ;)

    Bisogna premettere che Biden altro non fa che concludere l'operazione di disimpegno americano (almeno diretto) in Afghanistan che aveva decretato e avviato il suo predecessore Trump, con quest'ultimo che aveva accelerato tale operazione nell'ultimo periodo di mandato (in particolare scavalcando le opinioni più ragionevoli dell'ex segretario alla difesa Mattis e del consigliere Bolton tramite la linea dell'ex segretario di stato Pompeo) in modo da rendere irreversibile da parte di future amministrazioni democratiche un cambio di percorso, che sarebbe stato irrimediabilmente troppo oneroso (in questa linea si colloca anche la stipula dei c.d. "Accordi di Abramo" con Israele e le monarchie del Golfo siglati negli ultimissimi mesi di Presidenza). Naturalmente il motivo di tale politica estera meno interventista (diciamo anche un po' pilatesca) è da ricercare nell'ondivago orientamento dell'opinione pubblica statunitense rispetto all'interventismo militare americano all'estero: nei momenti di crisi e di scontento popolare, oppure quando nel Congresso è prevalsa una linea conservatrice (fanno eccezione i neo-con dagli anni '80 fino all'epoca di Bush figlio che hanno rappresentato il vertice del partito Repubblicano), allora ci si è sempre mossi verso una linea isolazionista. Biden è ben consapevole che "il paese profondo" che Trump è riuscito nel bene o nel male a mobilitare non guarda di buon occhio la presenza costosissima dell'esercito in scenari remoti. E' un'azione che può definirsi populistica, ma Biden deve marginalizzare le frange estreme del Partito Democratico e ingraziarsi quell'elettorato bianco, operaio, ma anche rurale, che ha voltato le spalle all'establishment di Washington, soprattutto in vista delle elezioni di midterm, primo banco di prova della nuova amministrazione che tenta di unire un paese ancora profondamente spaccato (inevitabile in una nazione che cambia culturalmente e demograficamente). Non solo in questo caso, ma per le stesse ragioni in diversi punti della policy della nuova amministrazione vi è una continuità con quella precedente (soprattutto riguardante la chiusura verso le ondate migratorie provenienti dal confine sud).


    Nella fattispecie, questa accelerata nello "smontare le tende" in quella parte del mondo, abbinata alla cronica incapacità occidentale di analizzare le complessità storiche, etniche, culturali alla base dei conflitti e tensioni nel Medioriente (vedi a tal proposito l'armamento dei mujaheddin contro l'invasione sovietica), è la causa principale di questa impetuosa e repentina anabasi talebana (gli americani credevano che Kabul avrebbe resistito almeno un altro mese invece la conquista è imminente). In vent'anni gli americani e i loro referenti afghani non hanno saputo creare una valida alternativa democratica: non vi era semplicemente una legittimità popolare e una base culturale atte alla creazione di una pluralità, bensì solo una parvenza di stato calato dall'alto, finalizzato a garantire gli interessi americani in termini di lotta al terrorismo. Anche perché l'includere un'etnia significa spesso escludere un'altra dalla gestione del potere. Inoltre, i talebani, di etnia pashtun (diffusi dunque anche in Pakistan, che per anni ha fatto il doppio gioco e ha protetto i terroristi, Bin Laden incluso), integralisti sunniti intesi a imporre una teocrazia basata sull'interpretazione letterale della Sharia, hanno sempre avuto il sostegno politico (e non solo) dai paesi sunniti, ora quasi delegati, proprio in virtù degli Accordi di Abramo sopracitati, a garanti della stabilità nella zona, nei fatti legittimati a frantumare il posticcio status quo dell'Afghanistan per imporre una forza maggiormente in linea con i propri interessi. Insomma, chi fa la guerra all'Occidente è sostenuto degli alleati dell'Occidente stesso: è il paradosso con il quale si potrebbe sintetizzare lo stato di cose nel Medioriente negli ultimi cinquant'anni.