La mia vita non mi piace, non mi importa nulla di avere obiettivi e concludere qualcosa, quindi sono apatico

  • Mario

    fa piacere leggere qualcuno che condivide la mia stessa situazione, ciò che mi fa più rabbia non è l'aver perso il lavoro, a dire il vero ogni lavoro che ho svolto l'ho fatto perché "dovevo", non perché l'avessi scelto e mi piacesse, e ciò mi fa terribilmente schifo e pena. Provo una gran pena per me stesso, perché questa non è vita, non è vita non avere obiettivi da seguire.
    È vero, come te, anche io ero molto ambizioso (e forse un po' lo sono ancora), ma le mie ambizioni restavano solo in forma di pensiero, fantasticherie e idealizzazione, non sono mai riuscito a concretizzare niente, perché a causa della mia inesistente autostima, finivo col sabotare ogni iniziativa in partenza. Ciò mi ha portato inevitabilmente ad abbassare di molto le aspettative, in questi anni mi sono accontentato di condurre una vita minimalista, e mi andava bene così.
    Purtroppo il contesto familiare non mi ha mai aiutato, ma solo giudicato per i miei errori e le mie debolezze.
    Ancora oggi non c'è armonia e loro sono più preoccupati del fatto che non lavori, che non dei miei problemi fisici e del mio stato psicologico in generale. Vorrei tanto andarmene via di casa perché c'è un clima negativo e di controllo (mio padre mi dice ancora dove devo fare domanda di lavoro, mi tratta come un ragazzino che non è in grado di gestirsi da solo, mi fa sempre pressioni) purtroppo però è come un cane che si morde la coda, dove vado senza un lavoro?
    Tu mi sembri molto più sereno di me, forse è solo una sensazione, sentirsi addosso la pressione dei genitori è davvero sgradevole.

  • Il mi contesto familiare è molto diverso dal tuo.
    Mio padre non mi ha mai giudicato, non mi ha mai messo fretta, mi ha sempre sostenuto senza mai chiedere nulla in cambio. E così sono anche i miei fratelli. Sono molto fortunato da questo punto di vista, anche se a volte me ne dimentico.

    Eppure vedi che anche con questa differenza importante il risultato non cambia poi molto.

    A me è molto utile conoscere la tua situazione: ho sempre pensato che i miei genitori troppo permissivi fossero stati la mia rovina, e a volte, nei momenti peggiori, davo loro la colpa del mio fallimento. Il tuo esempio mi aiuta a capire che se anche avessi ricevuto delle pressioni da parte dei miei, questo non mi avrebbe necessariamente aiutato.

    Immagino (ma non lo posso sapere con certezza) che i tuoi stiano cercando di proposito di creare un ambiente che non sia troppo "comodo" per spronarti ad andare via di casa e cominciare una tua vita indipendente. D'altra parte nella mia vita ho conosciuto molte persone che si sono messe a lavorare "seriamente" solo per poter finalmente liberarsi dai genitori e andare via di casa. Questo per dire che quel disagio può essere anche una fonte di motivazione.

    Io non sono così. Mi trovo molto bene a casa con mio padre. Lo aiuto nelle cose quotidiane, cucino, do una mano in casa. Si parla molto poco, viviamo due esistenze indipendenti e parallele.

    Ma il problema rimane... Manca una passione, una missione. Si provano cose e ci si arrende alla prima difficoltà. Forse sarebbe più interessante cercare di capire dove si è inceppato questo meccanismo, cos'è che ci impedisce di trovare la strada. Se è l'isolamento sociale, o la mancanza di carattere o le aspettative irrealistiche.

    Mi sento scoraggiato da queste considerazioni perché mi rendo conto di non avere il coraggio di guardarmi allo specchio. Non riesco a fare un'analisi onesta, continuo a rimanere aggrappato a un idea idealizzata di "me", continuo a pensare di poter fare di più, di essere intelligente e capace, quando i fatti poi dimostrano il contrario.

    se ti sembro sereno è solo un'illusione. In realtà sono vicino a toccare il fondo, in quanto ad ansia e depressione, da quando ho mollato il lavoro un paio di settimane fa. Sono così scosso che mi rivolgo a dei perfetti sconosciuti online.

  • Sono sempre stato timido e insicuro, per questo da adolescente passavo molto tempo da solo, spesso chiuso in camera a studiare o a fantasticare con la mente. Mi sono sempre sentito inadeguato, faticavo ad instaurare un'amicizia (quelle poche che avevo erano nate per caso e se non ero stimolato finivano col spegnersi) e questo disagio è emerso più evidente ai tempi dell'università, in quelle aule enormi stracolme di ragazzi e di gruppetti già affiatati, non avevo idea di come entrare in contatto con loro e mi sentivo isolato, non gradito, spesso tornavo a casa senza aver scambiato una parola con nessuno e mi sentivo sempre stanco e abbattuto. non stimolato ad andare avanti...credo che di qui sia iniziato il distacco vero e proprio dalla società, quando ho capito che io con la società aveva poco da condividere e preferivo di gran lunga stare per conto mio...gli unici stimoli che avevo era farmi trascinare in amicizie sbagliate, di gente persa come me, non me ne fregava niente del mio futuro e delle conseguenze che i miei errori avrebbero provocato.
    Ancora oggi non capisco perché di questo mondo non mi importi nulla, perché abbia un carattere sempre così remissivo, privo di entusiasmo.

  • Si, si. La carriera universitaria è andata così anche per me. Tanto isolamento, tante energie spese per cercare di rimanere aggrappati a questa cosa che è impossibile affrontare da soli. Non c'è altro modo di descriverlo: un continuo dispendio di energie senza riposo. Affrontare tutto da soli, non avere nessuno a cui rivolgersi, non avere una struttura sociale alle spalle nella quale rifugiarsi per ricaricare le batterie.

    La mia crescita personale si è fermata li, agli anni del fallimento accademico. Quella è una ferita sempre aperta, una serie di eventi dai quali forse non sono stato in grado di imparare una lezione. Tant'è che ancora oggi mi ritrovo a pensare di reiscrivermi all'università per ottenere quel titolo che non sono stato in grado di ottenere. Poi ci ripenso, provo a lavorare ma mi sento frustrato. Non riesco a mettere impegno nelle cose perché ogni cosa rappresenta un ripiego di quell'università fallita (due volte).

    La mente rimane bloccata li e in quei pensieri vengono bruciate tutte le energie. Non rimane nulla per coltivare una passione, un qualcosa che magari un giorno potrebbe trasformarsi in lavoro o suggerire una strada. Sono consumato. Tanti giorni non riesco più nemmeno a leggere un romanzo senza che la mente torni a preoccuparsi per il futuro ancora e ancora.

    Credo che la cosa più urgente sia ottenere un po' di "silenzio". Sospendere i giudizi (per quanto possa sembrare impossibile). Riuscire in qualche modo a tirare su delle mura per poter coltivare una piantina, un germoglio, in questa valle spazzata dalla tempesta.

    L'angoscia di doversi inventare qualcosa in fretta, il bagaglio dei fallimenti passati, il confronto con gli altri e con una realtà che diventa sempre più competitiva, a volte è troppo. A volte ho proprio paura di non farcela.
    A volte invece ci sono dei giorni in cui tutti i miei problemi sembrano ridursi a un 2+2=4. Mi dico che posso permettermi economicamente di prendermi una tardiva laurea triennale in qualcosa, vedo possibilità di formazione e di crescita. Mi sento forte e dico che si può ricominciare da capo, si può ricominciare dai banchi di scuola. Ma poi mi chiedo cosa potrei studiare? E che senso avrebbe? Sarebbe una qualcosa di utile per ampliare un curriculum desolante e vuoto o sarebbe solo qualcosa per cercare di rimarginare quella vecchia ferita degli studi falliti?L'entusiasmo dura poco, la luce si spegne di nuovo e mi ritrovo al punto di partenza.

    Così si sono dissipate le energie degli ultimi quindici anni della mia vita.

    Non so se ti riconosci in questo tipo di dinamiche...

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