Ci penso e ci ripenso ma non riesco proprio a vedere un punto di rottura, dove per ‘punto di rottura’ intendo un momento in cui, abituato come sei a fare certe cose, inizi a farne di diverse. E facendo cose diverse, la tua mente cambia (o prima la mente cambia e poi fai cose diverse). Io ora come ora non riesco ad immaginarmi quel momento e nemmeno la strada da percorrere per arrivarci. Si rafforza giorno dopo giorno la convinzione dentro di me di essere malato.
Ogni cosa la sento distante da me: è come se vivessi in un mio mondo, completamente separato da quello reale se non fosse per esilissimi ponti di collegamento che sottolineano l’insanabile differenza tra me e gli altri. E più mi impongo di creare nuovi collegamenti e più avverto questa differenza. E più avverto la differenza e più mi chiudo in me stesso, aumentando la percezione di essere distante da tutto.
E ciò che mi preoccupa è che non si tratta di distanza metaforica; è proprio una distanza tangibile. La sensazione di essere distante dal mondo, nei momenti in cui cerco di creare i collegamenti, si esprime in modo fisico.
Quando ieri sera sono entrato da *** a chiedere se avevano un tavolo, ad esempio. E’ difficile descrivere questa sensazione: io da alcuni anni la chiamo ‘depersonalizzazione’, anche se nessuno mi ha mai diagnosticato nulla del genere, però leggendo in giro ho riscontrato gli stessi sintomi. Insomma, sono entrato e mi sono trovato immerso in mezzo ad una folla di persone che aspettavano un tavolo. Io nel mezzo della stanza, la gente intorno, alcuni sguardi rivolti su di me, le cameriere che facevano lo slalom con i vassoi in mano. Inizio a cercare il tipo che prende i nomi con lo sguardo ma non lo trovo. Rimango in mezzo alla stanza perché non c’è spazio per muoversi, le cameriere spingono per insinuarsi oltre il mio corpo che fa da ostacolo. Non riesco a collocarmi nella stanza in modo naturale: è come se avessi puntato addosso lo sguardo di tutti, è come se tutti capissero che c’è qualcosa di anormale in me, semplicemente guardandomi. A quel punto, non so se si tratta di un meccanismo di difesa per evitare di andare nel panico, la mente si stacca dal corpo, le percezioni si affievoliscono, le voci si spengono in sottofondo, il faro del proiettore che ho puntato addosso si oscura piano piano: è come se uscissi da me stesso ed entrassi in un realtà ‘intima’ più piccola, ovattata, distante. Mi succede spesso, quando sono per strada e cammino, quando sono in fila da qualche parte, in treno. Mi succede soprattutto quando sono in mezzo a tante persone. Nelle aule dell’università, specie ai primi anni, sentendo le voci di centinaia di persone sovrapporsi creando un frastuono senza senso, aspettando che iniziasse la lezione, provavo la stessa sensazione di estraniazione. Penso che sia una forma molto acutizzata d’ansia. Quando è arrivato il tipo che prende i nomi ho riafferrato la realtà e richiamando tutta la normalità che potevo fingere sono andato da lui. Il rapporto con gli estranei per me è fingere di essere normale, è veramente una cosa innaturale, non ci sono abituato e verosimilmente mi sto disabituando sempre di più mese dopo mese.
Mi sento distante, spesso e volentieri, anche a livello di affinità mentale con gli amici che ho. Guarda, sempre ieri sera, quando eravamo a mangiare a *** (quando scrivo questi discorsi non mi piace citare nomi di luoghi o di persone, vorrei rimanere il più oggettivo e distante possibile dagli aspetti più contingenti delle cose, ma non è che possa esprimermi per parafrasi), io te e *** (appunto). Mi sono comportato per tutto il tempo in modo innaturale, il mio sguardo che non riusciva, come sempre, ad incrociare il suo. Non riesco a parlarle, non mi viene da chiederle niente, non mi viene di interessarmi a cosa abbia fatto durante la settimana. Quando salgo in macchina e la vedo, improvvisamente, non ho più voglia di scherzare, mi zittisco, divento stizzoso. La cosa bella è che non esiste un vero e proprio motivo perché io debba comportarmi così quando c’è lei (d’altronde lei si comporta con me pressappoco allo stesso modo, con indifferenza); probabilmente il motivo ci sarà anche ma è talmente radicato nelle profondità del subconscio che vallo a sapere te che cos’è! Una cosa è sicura però, il mio atteggiamento nei suoi confronti non migliorerà col tempo, per me ormai lei è un’estranea (“se domani non esistesse più sulla faccia della terra non mi cambierebbe nulla, anzi forse qualcosa migliorerebbe”) e, anche pensandoci bene, non riesco a trovare un senso alla situazione. Perché continuare a vedersi? Già adesso non ci diciamo nulla, eppure frequentiamo gli stessi corsi all’università quindi dovrebbe essere il momento più alto di condivisione. Il prossimo anno, quando non ci vedremo più a lezione, ma solo nelle 2 ore il sabato sera, cosa ci diremo? Nulla. E’ un’amicizia stranissima la nostra. Penso che a me di lei non sia mai fregato un c***o, che fondamentalmente mi sia sempre stata sulle p***e, non ci abbia mai condiviso niente di importante a causa dell’incompatibilità che c’è tra di noi, eppure - probabilmente perché avevamo te come amicizia comune - me la sto portando dietro da una vita. E, ti dirò, mi dà fastidio questa situazione perché, ripeto, quando usciamo e c’è anche lei mi sento limitato nell’esprimermi come vorrei, divento un’altra persona.
Per metafora, è come quel tavolino che hai comprato tanti anni fa per il salotto ma che non ti ha mai convinto veramente. Passano gli anni, ogni volta che lo vedi storci la bocca perché stona con tutto il resto dell'arredamento, pensi che sia proprio brutto, e ti ripeti che devi cambiarlo. Però ormai, perché non hai tempo o semplicemente perché ti sei abituato ad averlo e ci hai fatto l’abitudine, lo tieni. Per non aver voglia di cambiare una cosa che non ti piace ti abitui alla convivenza. Ecco, per me fare questo equivale a morire lentamente: quando ti rassegni ad una cosa, muori. La vita non è una cosa alla quale conformarsi, ma dovremmo essere noi a plasmarla in base alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri. Se ti rassegni alle cose, ma dentro di te continui a storcere la bocca ogni volta che passi dal salotto, stai morendo. Non voglio arrivare alla conclusione che le persone possano essere trattate come mobili, però è così, non dovremmo rassegnarci mai se non siamo veramente felici. Chissà se un giorno scatterà qualcosa nel mio cervello che mi farà buttare via questo cavolo di tavolino… se arriverà il ‘punto di rottura’… se sarà doloroso… o se vivrò per sempre solo… se riuscirò a trovare qualcuno che occupi il mio tempo… o semplicemente un senso… se guarirò da questa malattia che mi fa sentire distante da tutto. Ora come ora non vedo più lontano dell’oggi. Mi mancano le forze per lottare e per sperare.
Non ho la forza di sperare perché penso che qualsiasi cosa accadrà, anche se nuova, non riuscirà a salvarmi, dal momento che non potrò condividerla con qualcuno che possa rendermi felice. Quando anch'io avrò la macchina, cosa cambierà se non il fatto che il sabato sera avremo un macchina in più per andare negli stessi posti, con le stesse persone? Quando avrò una laurea con chi la festeggerò quando in aula magna sarò da solo in mezzo a gente che si abbraccia ed esulta contenta? Quando dovrò lavorare come farò a stare insieme ad altre persone se anche il più piccolo confronto con gli altri, come ti ho detto, mi porta quegli effetti? Ogni singolo cambiamento del mio aspetto da chi sarà notato e a che cosa sarà valso? Ho paura che non sarò mai normale, che resterò sempre nella mia condizione di distanza, nel mio micro mondo ovattato. Non credo di avere la forza e la motivazione necessarie per uscirne da solo. Sono parole vuote.
Le cose sono due: per paura non faccio nulla e tra dieci anni - nella migliore delle ipotesi - avrò ciò che ho ora oppure, a piccolissimi passi, compatibili con quella che ormai io, per semplicità, chiamo la mia malattia, mi impossesso di nuovi strumenti. Strumenti che in sé sono sicuramente inutili ma che forse mi faranno percepire il cambiamento più fattibile. Ora come ora vivo solo attraverso le mie parole, la mia vita è questo pagina, io sono gli spazi bianchi tra un carattere e l’altro, non esisto. Tra dieci anni non voglio continuare a non esistere.
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Interessante il fatto che in questo thread del 25/01 dici "non riesco proprio a vedere un punto di rottura", e a luglio hai aperto un thread intitolato proprio "Punto di rottura"
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