Messaggi di Allegro mestamente

    Assolutamente: infatti non frequento assiduamente nessuno in città, parenti inclusi. A un rapporto di convenienza preferisco la solitudine, anche se poi ne risento. Ma a intrattenermi con qualcuno a quel modo mi sentirei troppo alienato e finirebbe per essere solo frustrante (lo dico a posteriori: è capitato in passato).

    Ma se si finge per evitare la solitudine si è, sostanzialmente, comunque soli. È un paradosso. Per me tanto vale rischiare.
    In ogni caso attorniarsi di persone con cui si ha un rapporto meramente esteriore non arricchisce e non conforta: è un blando palliativo.
    Certo, alcuni possono preferire questo abbaglio al nulla, ma eventualmente ci si potrebbe rendere conto della sua natura illusoria. Senza contare che spesso l'ombra della solitudine continua a serpeggiare comunque sotterraneamente.

    Secondo me qui si entra in un'altra dinamica,che in realtà ha poco da spartire con l'argomento di questo thread:la cattiveria presente nella vita.Essere sinceri vuol dire anche far soffrire qualcuno,talvolta anche se stessi,quando si è consapevoli che la propria personalità difficilmente verrà accettata per quella che è.La sincerità richiede la forza per sopportarne gli effetti.

    Non sono convinto la spontaneità comporti necessariamente sofferenza per qualcuno. Capisco il tuo discorso, ma io mi riferivo semplicemente a una manifestazione del proprio essere senza stare a preoccuparsi eccessivamente di come si appare agli occhi degli altri (finché questo non lede nessuno, certo). Il pensiero altrui è inconoscibile a monte e quindi è controproducente congetturare troppo a fondo al riguardo: si rischia di proiettarci le proprie insicurezze e credere di individuare nell'atteggiamento dell'altro una critica a queste.
    Perciò credo valga la pena tentare di farsi conoscere per quel che si è, senza sovrastrutture posticce. Semplicemente, chi non apprezza passerà oltre.

    A mio avviso non ci si pone con trasparenza per la paura,la paura di risultare inferiori [...]

    Questo sottende una problematica tipica del nostro tempo. È una smania di essere indiscriminatamente benvoluti da tutti che trovo autolesiva: ci si sforza di aderire a un'immagine ideale di sé, la quale però non è raggiungibile, e quindi si finge. A se stessi e agli altri. Si innescano perciò meccanismi per cui alla fine, non potendo sostenere il peso della recita, si deluderà l'altro (che nel frattempo si sarà creato delle aspettative totalmente falsate) e di conseguenza se stessi. E per questo ci si perderà in un circolo vizioso di autosvalutazione.

    Essere immediatamente spontanei, invece, esprimendo naturalmente il proprio sentire, le proprie idee, la propria cultura ecc. opererà una selezione automatica: agirà da repellente per chiunque non fosse affine alle caratteristiche manifestate e terrà vicini gli altri. E sarà con questi ultimi che varrà la pena di instaurare un rapporto. Non ha alcuna utilità profondere energie verso chiunque a prescindere dalla compatibilità di spirito o abitudini che si ha con questi. È anzi controproducente: si perde il proprio e l'altrui tempo.

    E almeno lui ha ancora voglia di scrivere

    Credimi: è un tentativo disperato. Ma già temo di aver perso vigore, come si vede.

    Caro Belfalas, quanto dici mi ferisce molto, ma dev'essere colpa mia che evidentemente non so esprimere in maniera efficace i miei sentimenti.

    Sono sempre stato titubante a partecipare in comunità virtuali, e quindi non sono pratico di queste cose. Non lo so come ci si comporta, quale debba essere lo stile, cosa è accettato e cosa passa per pretenzioso. Non mi sono neanche posto il pensiero, sinceramente. Al momento di scrivere quell'intervento sapevo solo di provare un malessere intenso e ho cercato di esternare il dissidio che sento con la realtà che mi circonda. L'ho fatto d'impulso. Pensavo che potesse accadere più o meno lo stesso anche ad altri e ho creduto che magari avrei ottenuto dei suggerimenti su come affrontarlo senza patirne come mi succede.

    Ma ho evidenziato subito che, oggettivamente, credo siano problemi insignificanti i miei, come del resto sono insignificante io stesso (e non so, questo dettaglio forse ti è sfuggito). E io l'avverto tutta, questa insignificanza. La sua consapevolezza mi pervade al punto da impedirmi di vivere una quotidianità serena. Ma pur essendo una questione banale (però, di nuovo: non saprei quale questione umana non lo sia), se mi provoca malessere non so cosa devo fare. Non mi fa piacere, altrimenti non cercherei una soluzione.

    È vero però che non sono insicuro (il che comunque non implica che mi compiaccia di una cosa come scrivere su un forum a degli sconosciuti: sarebbe proprio ingenuo, per non dire idiota). Sono stato sociofobico, evitante e patologicamente ansioso per anni e fondamentalmente ho capito che il timore, le remore, ecc. sono delle colpe nel relazionarsi agli altri. Bisogna estirparle perché portano alla discomunicazione (prevalenza di un contenuto implicito, interpretabile ad arbitrio, su quello esplicito) e, quindi, a una comunicazione inefficace. Perciò cerco di essere molto specifico quando scrivo: uso dei termini che non lascino margine di fraintendimento. Vanità significa, nella sua accezione etimologica, inconsistenza. Io questo vedo, poi la parola che si usa è solo un simbolo: l'una vale l'altra, basta che il suo significato sia quanto meno ambiguo possibile. Non lo so, non ci vedo virtuosismi.

    Trovo incredibile, comunque, questa malafede. E mi scoraggia molto. Ripeto: per me ogni emanazione della mia mente è irrilevante, ovvia, consunta. Pensata già da altri e meglio. Però è quello che ho nella mia testa, e posso esprimere solo quello. Il punto era semplicemente che questi pensieri che faccio mi provocano malessere e mi chiedevo se c'è un rimedio.

    In ultimo, riguardo la carne da cannone: non perché descrivo una condizione miserabile io mi credo meglio di nessuno. Pensavo fosse implicito nel dire che sono irrilevante nel quadro d'insieme, ma lo ribadisco adesso: io ho di me la percezione di un'entità completamente inutile al mondo. E a se stessa. Non traggo reale appagamento da niente che io faccia, da niente che io dica, da niente che io viva. Da niente. È questo che intendo nello scrivere che mi appare tutto vano. Di nuovo: ho aperto la discussione per sapere se altri si trovano nella stessa condizione e possono dare consigli.

    Aggiungo ancora sulla carne da cannone: non provo assolutamente alcun disprezzo per le persone che ho descritto, al contrario sento una sconfinata empatia. Perché davvero siamo uguali: siamo nella stessa situazione. Perché davvero siamo tutti uno. È questo che fa la massificazione. L'unica differenza è che mentre altri hanno accolto il fatto di doversi illudere per ottenere una parvenza di benessere, io non riesco ad accettare una realtà così crudele. Non posso che oppormi pervicacemente all'idea che la lotta quotidiana contro la demotivazione serva solo a condurre un'esistenza simile.

    E, precisiamolo, non mi sento più furbo per questo. In effetti, è un comportamento disadattivo e, quindi, in termini evolutivi semmai sono meno intelligente.

    L'ansia di doversi dimostrare preparati o comunque non inferiori agli altri riguardo questioni culturali è per lo più indotta da un condizionamento mediatico.
    Con l'affermarsi delle industrie si è avuto lo sdoganamento della cultura per trarne profitto di massa e quindi si sono popolarizzate arti che per loro natura non appartenevano a tutti indistintamente (la musica, il cinema, la letteratura, ecc.), peraltro svalutandole facendone vacuo intrattenimento. È naturale vengano esercitate delle pressioni per indurre al consumo, ma sarebbe salutare ignorarle.
    Semplicemente, se non ci si sente affini a una data attività (avendo avuto cura di avvicinarla con criterio e consapevolezza), non ci si deve credere in difetto: magari si hanno altre inclinazioni.

    Detto ciò: io credo l'arte acuisca la sensibilità, perfezionando il sismografo interiore che consente di scandagliare il proprio e l'altrui animo. Non tutta, s'intende: bisogna rivolgersi a quelle opere che indagano l'uomo, le sue aspirazioni e le sue angoscie. Anche se in realtà si tratta di una lama a doppio taglio perché può rendere più ricettivi alla pochezza imperante oggigiorno. Ma, a parità di malessere, probabilmente ne vale la pena.

    Infine, Rhoda: trovo salutare che tu sia rimasta indifferente alla musica oggi largamente diffusa. Ma mi permetto di suggerirti, se non l'hai già fatto, di rivolgerti ad espressioni musicali più autentiche quali possono esserlo quella folcloristica o quella classica, magari usufruendo di una breve guida. A mio parere hanno maggior potenziale d'arricchimento.

    Anzitutto ringrazio tutti quelli che hanno risposto seriamente.

    Poi aggiungo: ho sospeso indeterminatamente gli studi (in cui già ero molto indietro) causa malessere, sono disoccupato e fondamentalmente un derelitto. Vivo di quel minimo che mi è sufficiente per sostentarmi (eccettuata qualche occasionale spesa voluttuaria, ad esempio. per internet). Mi procurerò i libri di Hesse, non li ho letti. Anche se purtroppo ultimamente non riesco a concentrarmi su attività ricreative perché il pensiero si rivolge sempre alla precarietà della mia condizione.

    Infine, per le persone io sento già una sconfinata pietà, non meno di quanta ne percepisca per me stesso. Trovo quella dell'uomo necessariamente una figura patetica (in senso etimologico). Non c'è scampo.
    Eppure si vuole fingere non sia così, ci si erge una barriera perfino contro se stessi pur di ingannarsi di essere più che miserabili (anche questo, nel senso etimologico del destare compassione).
    Questo mi sconforta: non è possibile un dialogo se non ci si pone con trasparenza verso il prossimo. È nocivo per tutti se ci si rifugia nell'orgoglio, nella vanità, nell'aggressività. Credo bisognerebbe invece tentare d'essere sodali, non rimane che questo per far fronte alla comune miseria. Vedere come i rapporti umani che mi attorniano siano puntualmente regolati dai principi suddetti (ché poi talvolta, mio malgrado, ne vengo coinvolto anch'io) lo trovo opprimente.