Messaggi di The Cather in the Rye

    Non riesco nemmeno a fare il conto degli anni che ho trascorso chiedendomi quando sarebbe arrivato il punto di rottura, oltre il quale è impossibile tornare indietro per recuperare ciò che è andato perduto.

    Non ci riesco perché è come se questi pensieri li avessi avuti nel cervello da sempre, da sempre sono stato insoddisfatto del rapporto con la compagnia dei pochi amici che ho, ritenendolo ormai esaurito e privo di stimoli per la mia crescita personale. Le classiche amicizie da uscita del sabato sera e nulla più, più che un piacere, una necessità per dimostrare a me stesso e agli altri che possedevo una qualche forma di interazione sociale. E nel frattempo aspettare, sognando passivamente, che una stagione della vita migliore mi si presentasse davanti.

    Ovviamente ciò non è accaduto. Nell’ultimo anno l’equilibrio tra insoddisfazione e accontentamento si è rotto e ho fatto in modo che quel ‘punto di non ritorno’, che il mio subconscio bene o male ha sempre acclamato e auspicato, finalmente arrivasse: una profezia che si auto-avvera. Ho avuto un atteggiamento completamento distruttivo nei confronti delle mie amicizie: da un giorno all’altro ho smesso di interessarmi delle loro vite, io di cercar loro e loro di cercar me. Ciononostante le uscite del sabato sono rimaste abbastanza frequenti, diventando settimana dopo settimana sempre più imbarazzanti, come immaginerete. Usciamo per la necessità di cui parlavo prima, per fingere a noi stessi di essere ‘normali’ e non essere soli al mondo, ma quello a cui andiamo incontro lo sappiamo. Perlopiù adesso rimaniamo in silenzio quasi tutta la serata, interrotto dai rari momenti in cui intavoliamo qualche discorso vago, non abbiamo piacere della reciproca compagnia. Se potesse, ognuno di noi si congederebbe da questo spettacolo alienante. Il problema è che per gente come noi non ci sono alternative e preferiamo - siamo costretti - la finzione all’ammissione del degrado nel quale le nostre vite sono precipitate.

    Dopo aver fatto terra bruciata intorno a me non posso far altro che contemplare il vuoto che è rimasto. Un’infinita distesa di cenere che mi riempie di angoscia. Ho voluto accelerare il processo, anticipare i tempi della distruzione, senza mai chiedermi seriamente se avrei avuto le risorse per ricostruire una nuova vita dopo. Ora che quel momento è arrivato, che la profezia si è auto-avverata, davanti a me vedo solo vuoto ed è terrificante. Da una parte il vuoto significa infinita possibilità per rinascere daccapo, dall’altra lo percepisco come annichilamento e tentazione di dissoluzione della propria identità nell’assenza di stimoli. Potrei riempire questo vuoto con tutto quello che voglio, diventando quello che voglio, 'felice', ma sento che da solo, perché è così che sono rimasto in pratica, non riuscirò a incanalare costruttivamente l’ampio spettro di possibilità che mi si apre davanti. Sento che da solo, complice la mia pressappoco inesistente autostima, cederò, invece, alla tentazione di annientarmi nel nulla e che impazzirò. Se non sono già pazzo.

    Se solo siete riusciti ad immedesimarvi un po’ nella mia situazione, io vorrei sentire da voi qualche consiglio che magari possa aiutarmi a fare un po’ di chiarezza. Cosa potrei fare per uscire dalla prigione in cui mi sono costretto a restare tutto questo tempo e ricollegarmi alla vita normale? E’ possibile ritornare ad essere normali dopo praticamente vent’anni d’isolamento sociale, con tutte le esperienze che non ho vissuto? Quali sono i primi passi concreti che uno che si trovi nella mia situazione può fare?

    Ci penso e ci ripenso ma non riesco proprio a vedere un punto di rottura, dove per ‘punto di rottura’ intendo un momento in cui, abituato come sei a fare certe cose, inizi a farne di diverse. E facendo cose diverse, la tua mente cambia (o prima la mente cambia e poi fai cose diverse). Io ora come ora non riesco ad immaginarmi quel momento e nemmeno la strada da percorrere per arrivarci. Si rafforza giorno dopo giorno la convinzione dentro di me di essere malato.

    Ogni cosa la sento distante da me: è come se vivessi in un mio mondo, completamente separato da quello reale se non fosse per esilissimi ponti di collegamento che sottolineano l’insanabile differenza tra me e gli altri. E più mi impongo di creare nuovi collegamenti e più avverto questa differenza. E più avverto la differenza e più mi chiudo in me stesso, aumentando la percezione di essere distante da tutto.

    E ciò che mi preoccupa è che non si tratta di distanza metaforica; è proprio una distanza tangibile. La sensazione di essere distante dal mondo, nei momenti in cui cerco di creare i collegamenti, si esprime in modo fisico.

    Quando ieri sera sono entrato da *** a chiedere se avevano un tavolo, ad esempio. E’ difficile descrivere questa sensazione: io da alcuni anni la chiamo ‘depersonalizzazione’, anche se nessuno mi ha mai diagnosticato nulla del genere, però leggendo in giro ho riscontrato gli stessi sintomi. Insomma, sono entrato e mi sono trovato immerso in mezzo ad una folla di persone che aspettavano un tavolo. Io nel mezzo della stanza, la gente intorno, alcuni sguardi rivolti su di me, le cameriere che facevano lo slalom con i vassoi in mano. Inizio a cercare il tipo che prende i nomi con lo sguardo ma non lo trovo. Rimango in mezzo alla stanza perché non c’è spazio per muoversi, le cameriere spingono per insinuarsi oltre il mio corpo che fa da ostacolo. Non riesco a collocarmi nella stanza in modo naturale: è come se avessi puntato addosso lo sguardo di tutti, è come se tutti capissero che c’è qualcosa di anormale in me, semplicemente guardandomi. A quel punto, non so se si tratta di un meccanismo di difesa per evitare di andare nel panico, la mente si stacca dal corpo, le percezioni si affievoliscono, le voci si spengono in sottofondo, il faro del proiettore che ho puntato addosso si oscura piano piano: è come se uscissi da me stesso ed entrassi in un realtà ‘intima’ più piccola, ovattata, distante. Mi succede spesso, quando sono per strada e cammino, quando sono in fila da qualche parte, in treno. Mi succede soprattutto quando sono in mezzo a tante persone. Nelle aule dell’università, specie ai primi anni, sentendo le voci di centinaia di persone sovrapporsi creando un frastuono senza senso, aspettando che iniziasse la lezione, provavo la stessa sensazione di estraniazione. Penso che sia una forma molto acutizzata d’ansia. Quando è arrivato il tipo che prende i nomi ho riafferrato la realtà e richiamando tutta la normalità che potevo fingere sono andato da lui. Il rapporto con gli estranei per me è fingere di essere normale, è veramente una cosa innaturale, non ci sono abituato e verosimilmente mi sto disabituando sempre di più mese dopo mese.

    Mi sento distante, spesso e volentieri, anche a livello di affinità mentale con gli amici che ho. Guarda, sempre ieri sera, quando eravamo a mangiare a *** (quando scrivo questi discorsi non mi piace citare nomi di luoghi o di persone, vorrei rimanere il più oggettivo e distante possibile dagli aspetti più contingenti delle cose, ma non è che possa esprimermi per parafrasi), io te e *** (appunto). Mi sono comportato per tutto il tempo in modo innaturale, il mio sguardo che non riusciva, come sempre, ad incrociare il suo. Non riesco a parlarle, non mi viene da chiederle niente, non mi viene di interessarmi a cosa abbia fatto durante la settimana. Quando salgo in macchina e la vedo, improvvisamente, non ho più voglia di scherzare, mi zittisco, divento stizzoso. La cosa bella è che non esiste un vero e proprio motivo perché io debba comportarmi così quando c’è lei (d’altronde lei si comporta con me pressappoco allo stesso modo, con indifferenza); probabilmente il motivo ci sarà anche ma è talmente radicato nelle profondità del subconscio che vallo a sapere te che cos’è! Una cosa è sicura però, il mio atteggiamento nei suoi confronti non migliorerà col tempo, per me ormai lei è un’estranea (“se domani non esistesse più sulla faccia della terra non mi cambierebbe nulla, anzi forse qualcosa migliorerebbe”) e, anche pensandoci bene, non riesco a trovare un senso alla situazione. Perché continuare a vedersi? Già adesso non ci diciamo nulla, eppure frequentiamo gli stessi corsi all’università quindi dovrebbe essere il momento più alto di condivisione. Il prossimo anno, quando non ci vedremo più a lezione, ma solo nelle 2 ore il sabato sera, cosa ci diremo? Nulla. E’ un’amicizia stranissima la nostra. Penso che a me di lei non sia mai fregato un c***o, che fondamentalmente mi sia sempre stata sulle p***e, non ci abbia mai condiviso niente di importante a causa dell’incompatibilità che c’è tra di noi, eppure - probabilmente perché avevamo te come amicizia comune - me la sto portando dietro da una vita. E, ti dirò, mi dà fastidio questa situazione perché, ripeto, quando usciamo e c’è anche lei mi sento limitato nell’esprimermi come vorrei, divento un’altra persona.
    Per metafora, è come quel tavolino che hai comprato tanti anni fa per il salotto ma che non ti ha mai convinto veramente. Passano gli anni, ogni volta che lo vedi storci la bocca perché stona con tutto il resto dell'arredamento, pensi che sia proprio brutto, e ti ripeti che devi cambiarlo. Però ormai, perché non hai tempo o semplicemente perché ti sei abituato ad averlo e ci hai fatto l’abitudine, lo tieni. Per non aver voglia di cambiare una cosa che non ti piace ti abitui alla convivenza. Ecco, per me fare questo equivale a morire lentamente: quando ti rassegni ad una cosa, muori. La vita non è una cosa alla quale conformarsi, ma dovremmo essere noi a plasmarla in base alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri. Se ti rassegni alle cose, ma dentro di te continui a storcere la bocca ogni volta che passi dal salotto, stai morendo. Non voglio arrivare alla conclusione che le persone possano essere trattate come mobili, però è così, non dovremmo rassegnarci mai se non siamo veramente felici. Chissà se un giorno scatterà qualcosa nel mio cervello che mi farà buttare via questo cavolo di tavolino… se arriverà il ‘punto di rottura’… se sarà doloroso… o se vivrò per sempre solo… se riuscirò a trovare qualcuno che occupi il mio tempo… o semplicemente un senso… se guarirò da questa malattia che mi fa sentire distante da tutto. Ora come ora non vedo più lontano dell’oggi. Mi mancano le forze per lottare e per sperare.

    Non ho la forza di sperare perché penso che qualsiasi cosa accadrà, anche se nuova, non riuscirà a salvarmi, dal momento che non potrò condividerla con qualcuno che possa rendermi felice. Quando anch'io avrò la macchina, cosa cambierà se non il fatto che il sabato sera avremo un macchina in più per andare negli stessi posti, con le stesse persone? Quando avrò una laurea con chi la festeggerò quando in aula magna sarò da solo in mezzo a gente che si abbraccia ed esulta contenta? Quando dovrò lavorare come farò a stare insieme ad altre persone se anche il più piccolo confronto con gli altri, come ti ho detto, mi porta quegli effetti? Ogni singolo cambiamento del mio aspetto da chi sarà notato e a che cosa sarà valso? Ho paura che non sarò mai normale, che resterò sempre nella mia condizione di distanza, nel mio micro mondo ovattato. Non credo di avere la forza e la motivazione necessarie per uscirne da solo. Sono parole vuote.

    Le cose sono due: per paura non faccio nulla e tra dieci anni - nella migliore delle ipotesi - avrò ciò che ho ora oppure, a piccolissimi passi, compatibili con quella che ormai io, per semplicità, chiamo la mia malattia, mi impossesso di nuovi strumenti. Strumenti che in sé sono sicuramente inutili ma che forse mi faranno percepire il cambiamento più fattibile. Ora come ora vivo solo attraverso le mie parole, la mia vita è questo pagina, io sono gli spazi bianchi tra un carattere e l’altro, non esisto. Tra dieci anni non voglio continuare a non esistere.

    Cara Joe,
    mi viene spontaneo rivolgermi a te come se stessi parlando ad un amica perché nelle tue parole ho riletto la mia situazione, i motivi della mia frustrazione, le preoccupazioni sul futuro… Avrei potuto veramente essere io l’autore del tuo intervento e questa cosa, da un certo punto di vista, mi rende felice; ho pensato quanto sia curioso che persone che apparentemente nulla hanno a che vedere l’una con l’altra e che nemmeno si conoscono siano, in realtà, legate da un’ “affinità di pensiero” così sorprendentemente profonda. Mi ha fatto riflettere su tutte quelle volte che ho pensato di star scontando un’ “infelicità criptata”, incomprensibile, esagerata, immotivata agli occhi di tutti. L’incomprensione - talvolta l’indifferenza - di chi ci sta vicino, la paura di far allontanare le persone care facendo pesar loro troppo il nostro disagio, in una parola, la solitudine sono tutte esperienze che, come te, ho vissuto sulla mia pelle. Come te, e chissà quanti altri. Questo pensiero, per quanto banale, mi rende felice, mi fa sentire un po’ più “normale” e speranzoso.

    Sono un ragazzo della tua stessa età (ho un anno di meno) e conosco perfettamente la sensazione di star vivendo un’esistenza “repressa”. Anch’io sono stato cresciuto dai miei genitori nel “culto” dello studio: esattamente come hai detto tu, mi è stato presentato il mondo della scuola come una realtà “normale” e familiare; mia madre durante i primi anni delle elementari mi ha seguito molto affinché svolgessi con cura i compiti, responsabilizzarmi; insomma, più o meno implicitamente i miei genitori hanno contribuito enormemente a inculcarmi l’idea dell’ “istruzione” come unico mezzo di affermazione, anche e soprattutto personale… con questo non voglio dire che mi obbligassero a studiare, che mi punissero se prendevo un brutto voto perché la realtà è che loro non mi hanno mai costretto in nulla (di questo sono loro molto grato) e credo che se alla fine del liceo avessi voluto prendere una strada diversa dall’università me lo avrebbero senz’altro permesso… ma non ne sarei stato in grado io in prima persona perché studiare era diventato l’orizzonte della mia normalità.

    Lo studio è sempre stato un impegno nel quale e per il quale ho consumato moltissima passione ed energie (ricordo ancora le ore sottratte al sonno per preparare qualche interrogazione ai tempi delle superiori, o anche adesso i tour de force estenuanti nei periodi di esami: ti scrivo appunto mentre sto facendo una pausa!); lo studio - certo, mi riferisco a questo mio modo di viverlo in maniera fin troppo esasperata - mi ha insegnato tanto in termini di responsabilità e civiltà ma mi ha tolto anche tantissime opportunità di poter vivere pienamente la mia adolescenza. Non ho mai trovato il tempo, almeno prima di questi ultimi 2 o 3 anni, di avere un hobby (che so, suonare uno strumento), fare sport, coltivare una relazione… qualsiasi cosa… perché mi sembrava mi sottraesse tempo prezioso per studiare. Essere uno studente modello, impeccabile, che - almeno sul piano della “preparazione scolastica” - non venisse mai colto in fallo mi dava l’illusione di essere completo (magari, con un po’ di superbia, di essere migliore dei miei compagni normali).

    Risultato: durante i primi anni di università ecco che arriva la botta di realtà. Tostissima. Mi iscrivo a ingegneria (con poca passione, stupidamente), i primi tempi me la cavo bene finché arriva l’esame sul quale mi blocco (fisica). E lì crolla tutto l’altarino… cade la maschera di studente ineccepibile che tenevo su da 15 anni. Lo studio, e in particolar modo, il riuscire bene nello studio era sempre stato il pilastro sul quale si reggeva la mia vita e che giustificava tutte le esperienze e le emozioni per il quale avevo immolato. E’ stato un periodo molto duro, una delle crisi più nere che avessi mai attraversato, costernata da crisi d’ansia e attacchi di panico… Ad oggi mi sono convinto che quella crisi fosse inevitabile perché mi ha fatto riflettere su come avessi sempre vissuto un’esistenza non completamente mia, come se stessi impersonando il ruolo di un attore in una farsa teatrale alla fine della quale, dietro il sipario, restavano solo i miei complessi, la mia incurabile timidezza e un profondissimo senso di inferiorità e di incapacità di vivere.

    Questo per dirti che le crisi, come quella che ora stai vivendo, a volte sono una grande benedizione perché sono il modo che il nostro cervello ha per farci aprire gli occhi. Sono dei momenti nei quali ci troviamo faccia a faccia con noi stessi, costretti a fare un bilancio del nostro trascorso. E come avrai capito il mio bilancio segnava un enorme segno meno. A quel punto avevo due scelte, però: abbandonarmi alla disperazione, farmi corrodere giorno dopo giorno dal senso di fallimento totale, farmi sedurre (chi sa) dal desiderio di farla finita (perché veramente - ora ne parlo con fin troppa leggerezza forse - le cose per desiderare il contrario non erano molte) oppure rimboccarmi le maniche e imparare quello che i libri non mi avevano mai insegnato, imparare a vivere a 22 anni. tuttora, da un annetto a questa parte, mi sto rimboccando le maniche e sto muovendo piccolissimi passi per costruire un’autostima che regga, stavolta, su basi concrete. NON è assolutamente facile, i momenti di debolezza e di sconforto sono dietro ogni angolo… e se vai a leggere il mio ultimo intervento su questo forum capirai bene cosa voglio dire… ma questa è la vita. Spesso mi sento solo davanti ad una lotta impari e penso che da solo non avrò mai le forze per imporre un cambiamento sostanziale. Tuttavia, non bisogna mai cadere vittima del disfattismo: immergersi troppo nell’abisso ci fa perdere di vista il faro che illumina il sentiero verso i nostri obiettivi. Bisogna darsi degli obiettivi, anche piccoli, stupidi, quotidiani ma che costituiscano per noi un tavolo di prova. Bisogna chiederci cosa vogliamo da noi stessi e dal nostro futuro da qua ai prossimi 5 anni: chiediti cosa sei disposta a sacrificare perché quell’immagine di futura felicità possa incarnarsi nel tuo presente. Elucubriamo meno e agiamo di più, sospendendo l’eccessivo giudizio di autocritica. Osa voler essere felice!

    E mentre scrivo questo sappi che sto incitando anche me, perché ne ho bisogno quanto te, perché non voglio assolutamente credere che alla nostra età muoiano già le speranze di poter vivere una vita degna di essere vissuta!

    (Nota personale e opinabilissima: il consiglio di alcuni utenti di ricorrere a psicofarmaci “a priori” - sia in questo post che in altri che ho letto - mi lascia un po’ perplesso. Non voglio dire che ricorrere alle cure di uno psicoterapeuta sia inutile, senz’altro ci sono situazioni PATOLOGICHE serie che giustificano un intervento in quella direzione… Nella tua situazione, Joe, che voglio credere sia la stessa in cui mi trovo io, cioè quella di due ragazzi molto giovani scoraggiati e depressi (come è normale che succeda) per il proprio futuro, BENEDETTA sia la crisi! La crisi esistenziale è la prova della non infallibilità dell’uomo, è il pungolo del cambiamento, è la fiamma che ci ustiona ma che al contempo, quando si raggiunge la maturità giusta, alimenta il nostro desiderio di rivalsa! Gli psicofarmaci, secondo me, a volte non fanno altro che estinguere questa fiamma, rivelandosi solo una soluzione temporanea (ripeto: per questo specifico caso! E’ un po’ come andare all’ospedale per curare l’influenza). Sulle spalle dell'uomo pesano milioni e milioni di anni di qualsivoglia forma di sofferenza eppure, anche prima della nascita dello psicofarmaco, è riuscito, in qualche maniera, a superare se stesso e i propri limiti. Questo mi fa sperar bene che insito nel DNA di ognuno di noi sia già radicata la forza sufficiente di cui abbiamo bisogno)

    Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi” (A. Einstein)

    Non so da dove iniziare. Mi sembrava significativo iniziare da questa citazione che mi risuona nella testa da qualche tempo ma, così facendo, mi rendo conto d’essermi già dato la risposta, inficiando inevitabilmente l’utilità di questo mio intervento.

    Eppure continuo a fare le stesse cose, vivendo nell’apatia, nella noia, nell’insoddisfazione. Sono passato per la crisi, più volte, ma non mi ha mai dato la spinta necessaria per fare un cambiamento sostanziale.

    Non c’è quasi niente che mi dia felicità. Se resto in casa mi sembra che la vita mi scivoli via di mano, di star sprecando le grandi potenzialità che la mia giovane età mi offre. Se esco mi trascino per le strade per inerzia, senza che nulla smuova interesse in me. Ho alcuni amici ma non ho il piacere di stare in loro compagnia.

    Non riesco ad interagire con il mondo. Vorrei mescolare la mia esistenza con quella delle altre persone, come tutti, ma non lo faccio. E non lo faccio per una mia “deficienza” di socializzazione, per pigrizia, perché ormai mi sono abituato all’idea che le cose vanno così da sempre. I rapporti che ho con il mondo sono sterili, alienanti, “derealizzanti”. Le persone hanno la consistenza di sagome di cartone che costeggiano il mio percorso eternamente ciclico.

    Riesco ad arginare il vuoto e dare un po’ di spessore alla mia vita solo grazie alla passione e alla dedizione che ripongo nei miei studi che ad oggi, forse, sono una delle rare fonti di soddisfazione che mi restano. Eppure anche questa soddisfazione non è che un “costrutto” della mia coscienza che mi distrae dall’angosciosa ed opprimente sensazione di un futuro che mi è negato. Nebbia imperscrutabile sul mio avvenire. Non riesco ad immaginarmi il momento che, laureato, dovrò iniziare a lavorare e vivere autonomamente.

    E’ un limbo senza sfumature. Cammino per il mondo senza lasciare impronte del mio passaggio. Tutto mi scivola addosso. Fino a qualche anno fa questo mi deprimeva tantissimo; adesso, invece, mi sono quasi abituato alla mia situazione. E la cosa mi spaventa. Ho paura di isolarmi ad un punto tale da non poter più fare ritorno, cioè di compromettere la mia capacità di interazione con il mondo irreversibilmente. Ho paura di diventare un reietto che osserva da lontano la felicità delle altre persone. O peggio ancora di impazzire per l’eccessiva alienazione. Ho paura che non troverò mai nessuno che possa capirmi o che possa farmi star bene (uso impropriamente il termine “trovare” che presupporrebbe l’azione del “cercare” da parte del sottoscritto, cosa che non è: sarebbe più corretto dire “Ho paura che mai nulla/nessuno cali dal cielo”…). Non ho abbastanza carattere, personalità, autostima per domare la mia vita.

    Dovrei smettere di pensare troppo alle conseguenze e obbligarmi a vedere la realtà meno negativa di come me la rappresento, invece “continuo a fare le stesse cose”.