Messaggi di morgenrot

    Lasciamo perdere il superfluo - che sicuramente al giorno d'oggi è difficilmente identificabile, visto che ci siamo così abituati a considerarlo una "prima necessità" da considerarlo un diritto inalienabile - e guardiamo appunto ai veri bisogni primari di un individuo: sostentamento e riparo, (senza dimenticare che c'è chi non ha nemmeno questi) ed un equilibrio sufficiente ad affrontare gli ostacoli e non cadere nel panico alla prima difficoltà. Non manca ancora qualcosa? E cosa potrebbe mai contribuire a realizzare questo equilibrio, un animo saldo e sicuro di sé, nel marasma di incertezze in cui viviamo, in questa "società liquida"?

    Mi rendo conto che alcune insoddisfazioni ce le costruiamo in uno stato di apparente autolesionismo, sembra quasi siano il pane di tutti i giorni, necessario come l'aria per respirare.
    Tuttavia non si può negare la presenza di frustrazioni e privazioni oggettive, che l'individuo è costretto a sopportare nel tessuto in cui viviamo, o è solo una mia visione parziale e deformata da proiezioni del tutto personali?

    Quanto al sopravvivere, non intendevo il ritrarsi di fronte alle sfide - anche se per alcuni può rivelarsi una scalata senza ossigeno oltre i 3.000 mt anche mettere un piede fuori di casa, e non sarebbe certo una conquista voluttuaria il riuscire nell'impresa - ma finire per accettare passivamente situazioni potenzialmente modificabili. Di questo ho paura: finire con il credere di poter fare a meno di tutto, non provare neanche più a "scalare" la propria montagna, perché tanto si è convinti di non farcela.

    Tutto avrei potuto pensare di me, tranne che di essere, in fondo in fondo, epicurea, eppure...

    La paura degli dei è scomparsa da quando ho smesso di occuparmene, perché avevo problemi più seri a cui pensare.

    La paura della morte è ben bilanciata da una pari e spesso maggiore paura della vita, quindi ci può stare, anzi alle volte torna utile.

    Il dolore è costante ma non mi uccide né mi fa perdere conoscenza...anche se devo ammettere che in un paio di occasioni mi ha fatto sragionare...ma ho imparato a sopportarlo con calma, dignità e classe e pure senza farmaci...

    Ho ancora qualche problema con l'infelicità, nel tentativo di soddisfare i bisogni primari: per fortuna devo pensare solo a me stessa, ma per dirla proprio tutta, qualche volta arrivo un po' "strozzata" a fine mese, in più al lavoro - nel nome della crisi - si profila qualche taglietto ciclico qui e là, quindi addormentarsi sereni a volte è arduo, anche perché più che col muro non potrei confidare ad altri queste banali preoccupazioni...qualche volta sarei tentata di tornare a prendere farmaci per alleviare un po' gli stati d'ansia, ma poi mi rendo conto che finché va così, non ho di che lamentarmi, perché ho (ancora) un lavoro.

    Mi perdoni, voleva essere solo autoironia.

    Non capisco niente di filosofia, ma sono d'accordo sul fatto che ridurre le proprie pretese ed aspettative paghi in fatto di soddisfazione o quantomeno di serenità. Mi auguro però che non si corra così il rischio di rassegnarsi alla pura sopravvivenza.

    Beh, riuscire a lavorare e anche tanto, nonostante la malinconia o altri problemi, può significare tante cose, oppure niente. Il lavoro è solo un aspetto funzionale della persona, e si dovrebbe considerare ogni persona come un caso a sé, guardando anche ad altri aspetti del suo modo di vivere.
    Ci sono casi in cui il lavoro - per quanto mal sopportato - diventa l'unica espressione, prendi per esempio persone sole che non hanno altro che il lavoro come occasione "sociale". Il lavoro non dà loro alcuna soddisfazione, anzi, crea angosce e difficoltà anche maggiori ma miracolosamente "funzionano" almeno lì, perché 1) per campare qualcosa devi fare se non vivi di rendita e 2) oggi come oggi, avercelo un lavoro, anche se ti prosciuga le energie, è già un'ancora di salvezza, di fronte alle possibili alternative. Credo sia semplicemente istinto di sopravvivenza.

    Sono pigra e indolente, patologicamente ansiosa, impaziente e testarda. Non sono buona né gentile, anche se socialmente cerco di salvare la faccia.
    Cerco di non farmi notare, per non espormi, ma quando esco allo scoperto credo di apparire agli altri per quello che sono, una persona debole e fortemente complessata, noiosa e stancante.

    Tutto in funzione dei nostri pensieri, che sono il prodotto del nostro essere, che concorre a definirci in base alle nostre azioni.
    Ecco perche ci si dovrebbe guardare dentro...

    Ma i pensieri non vanno solo in una direzione o verso un unico obbiettivo, anche se alle volte accade. Ci sono anche i cosiddetti "conflitti", dove - diciamo così - ti senti tirato un po' verso destra e un po' verso sinistra, una parte vuole remare in una direzione e l'altra si oppone (si dovrebbe ricorrere a un governo tecnico?)
    Vivendo in un caos a doppio regime finisce che - per quanto cogiti - non ti sai nemmeno definire, e ti accorgi che l'immagine che restituisci a chi tenta di guardarti dentro è piuttosto confusa. Per qualcuno sarai una s∙∙∙∙∙a, per altri una derelitta, o una brava persona e per altri ancora un'invasata. E potrebbero starci tutte, queste etichette, o anche no.

    Se alcune persone sono capaci di vivere solo nella menzogna,falsità da non ricordare neppure chi erano,chi sono prima di riempire di bugie gli altri e se stessi come potranno mai vivere giorni felici e sereni con gli altri?

    C'è chi mente senza nemmeno sapere di mentire, quindi finisce per credere di essere la maschera, dimenticando quello che c'è sotto. E chi riesce a costruire e fondare una vita intera sulla menzogna. Non mi spiego come accada, ma succede. Capacità di immedesimazione?

    Vorrei dirti che non cadrò più nella tua rete, nemmeno per sbaglio o per distrazione. Potrò anche chiedermi tra me e me come ti è scappato quel messaggio - sicuramente una svista, probabilmente un lapsus da manuale - all'alba di una domenica mattina, dopo tutti questi anni. Ma la risposta sta già dentro a quel messaggio: completamente vuoto.

    varie condizioni che a volte non permettono di partecipare attivamente alla vita sociale e culturale.

    ecco appunto. Io vorrei andare a vederlo, solo che non ho nessuno con cui poter andare al cinema, e andare da sola (ci ho provato) mi fa stare da cani. Vorrei vedere mostre, andare a concerti, o eventi culturali, vorrei fare tante cose - che però da sola non riesco a fare. Un mio limite lo ammetto.

    So di aver ricevuto un'educazione molto rigida e di aver avuto l'esempio di mia madre che e' super intransigente, in prima persona con se stessa, e che mi ha influenzato con la sua severita' di giudizio. Ma se so tutte queste cose, perche' non riesco a rilassarmi?

    Brutta bestia, il giudice interiore...anche il carico più leggero pesa 4 volte tanto. E anche se lo sai, non riesci a tacitarlo.
    Prova a considerare che chiunque, anche il più scafato professionista, nelle prime settimane (e non giorni!!) in un nuovo contesto deve resettare la propria esperienza e le proprie capacità in base ad aspettative diverse, a nuovi strumenti, nuovi colleghi ecc.ecc. C'è una fase di adattamento, in cui devi concederti anche di sbagliare, di non capire, di fare "brutte figure". Nessuno ne è immune, anche chi appare perfettamente a proprio agio in un nuovo posto di lavoro.

    Comprendo la tua esigenza, e mi rendo anche conto degli ostacoli. Cercare di dribblare comportamenti relazionali imparati prestissimo e messi in atto fino all'età adulta non è impresa da poco, ma sono certa che il passo primo e fondamentale sia individuare il meccanismo e sentire la necessità di scrollarselo di dosso, quindi sei già sulla strada di voler fare qualcosa, e non importa cosa.
    Credo che se c'è anche solo un barlume dell'esigenza di non vivere o non agire più in un certo modo, ci sia già in quella spinta una parte "sana" che ci vuole riportare alla realtà.
    (Poi leggo 3d come "genetica e comportamento" e mi prende lo sconforto, però continuo ostinatamente a provarci.)

    Forse non sei, o non ti senti lucida, ma leggendo quello che scrivi e come lo scrivi, penso che tu abbia le tue carte da giocare per poter raggiungere l'obbiettivo. Non sottovalutare le resistenze al cambiamento, che forse ti hanno portato tra l'altro a sospendere la terapia. A volte per esempio sento davvero che non saprei pensare e agire in un modo diverso, mi blocco sui miei pensieri circolari e autoreferenziali, penso tutto ed il suo contrario per confutarlo ad arte e riportare il quadro sempre nella stessa posizione. Anche un cambiamento sano fa male, stranamente più dei comportamenti autosabotanti adottati fin qui, perché questi ci sono talmente "familiari" (in ogni senso, temo). E ci si aggrappa ai vecchi schemi con le unghie e coi denti, perché quelle frustrazioni si è imparato a gestirle.