Eccomi qui, sono ritornato.
Dopo alcuni mesi di assenza dal forum, ho avvertito fortissima la voglia di rientrare a farne parte, di ammazzare la mia noia forzata (della quale parlerò presto, è il fulcro del messaggio che sto scrivendo) leggendo le vostre esperienze, e provare per un attimo quell'empatia che da sola giustifica l'esistenza, secondo me, perchè è una forma di amore verso l'autore di ogni singolo messaggio, anche se non comunicato, anche se fine a sè stesso, apparentemente.
Con fatica spingo le mie dita a completare ogni singola frase cercando di condensarvi tutto il mio sentimento, tutto me stesso, la pienezza delle mie sensazioni.
Ritorno in un periodo brutto per me, un periodo molto triste. Comunicherò a chi si ricorda di me (una o due persone) brevemente i cambiamenti che mi sono capitati, che si sono avuti nella mia sciatta esistenza. Forse la tristezza non è il concetto che più propriamente potrebbe descrivere ciò che mi è capitato. No, la parola giusta è "depressione", anche se non ho la presunzione di ritenermi depresso. Sto soltanto con un mal di stomaco perenne e subdolo, perchè non colmabile vomitando o mangiando. E' una stomachevolezza che rimarrà per molto.
Passo al dunque. Qualcuno ricorderà che io ero all'università, che affrontavo con difficoltà visto un totale non adattamento all'ambiente e a certi condizionamenti che esso mi dava. O forse quest'ultima è solo l'ennesima scusa che dò alla mia mente, per giustificarne qualche deficit di natura non certo organica, come poi spiegherò, ma certamente legata a qualche altra fonte. Ebbene, io l'università l'ho lasciata lo scorso ottobre, ormai convinto che non potessi affrontarla persistendo questo stato di cose.
Preferisco darmi delle linee guida nello scrivere, perchè altrimenti mi perdo nella mia caoticità che è l'immagine stessa del mio male. Parlerò, quindi, prima della storia di questi mesi, per poi soffermarmi sul problema che avverto sempre presente in me, e che si è ripresentato in tutta la sua complessa cattiveria in questi giorni.
Dopo aver lasciato la facoltà di ingegneria, ho aiutato mia zia con la sua tesi di laurea, concependo questo sforzo come una sorta di lavoro. Lavoro è stato, a dir la verità, anche se è servito a darmi una tranquillità solo momentanea. Ho finito di lavorarvi ad inizio gennaio, dopodichè sono rimasto nell'inattività (forzata, perchè non ho la patente e non si trovano lavori adatti a questo tipo di situazione) fino a quando ho cominciato a preparare un concorso del quale ho passato già la prima prova. Dico subito che il concorso sarà invincibile, oltre che per i soliti problemi legati a fattori extra (raccomandazioni) anche per il fatto che le successive prove sono orientate sullo studio di materie che non ho mai studiato, delle quali non posseggo il metodo. Molto più semplicemente, io ho difficoltà con lo studio ancestrali, che vanno avanti da secoli. Più passa il tempo, più ho la sensazione che la mia mente prenda coscienza del problema, della mia inadeguatezza allo studio, e faccia scattare delle molle in grado di paralizzarmi sempre più, relativamente allo studio, sempre. Perchè è vero, se funzionasse lo studio, io avrei risolto ogni cosa.
Prima di descrivere appieno il problema, c'è da dire che da tempo ho cominciato a frequentare uno psichiatra. E' una persona che per me ha la giusta autorità. Mi ha sottoposto a un test, quello di Rorschach, dal quale è emerso che non ho malattie psichiche, e che le presunte categorie mentali (parlo di quelle categorie che migliaia di filosofi hanno elencato in maniera più o meno esauriente) che dovrei applicare allo studio sono sane. Andando avanti con la terapia, che ha coinvolto anche la mia famiglia, e parlando del mio problema con lo studio, lui mi ha consigliato di abbandonare il mio atteggiamento esistenziale fortemente legato ad una sorta di topos psicologico, "lo studioso o uomo dedito ai massimi sistemi" (la definizione è mia, solo mia) e di dedicarmi a questioni più spicciole e alle piccole gioie della vita per poter da lì risalire a riattivare determinati equilibri. Il fatto è che le cose più comuni, come ballare o andare al mare o all'Acquapark, a me annoiano. Sono le cose che coloro che mi stanno vicino amano al punto da organizzare la giornata per queste cose. La mia vita aveva senso, e continuerebbe ad averlo, solo per lo studio, di cui ora non riesco più a godere. Le ragazze non mi piacciono (non sono gay, semplicemente misogino per una certa tipologia di ragazza alla quale raramente vedo eccezioni; sembrerò superficiale, sessista, o qualunquista, ma almeno sincero: davvero le ragazze che vedo vicino a me sembrano fatte con lo stampino), e quindi anche la possibilità di poter costruire un micromondo è perlopiù remota. In pratica, sono un uomo senza scopo, una larva umana.
Io cercherò in breve di descrivere il mio problema con lo studio, cercando con ciò di coinvolgere in questa discussione chiunque vi fosse interessato.
Intenderò con "metodo di studio" non tanto la pianificazione della parte del mio tempo giornaliero da dedicare allo studio, bensì, quasi in senso cartesiano, un metodo mentale da applicare a un qualsiasi testo (dove con testo intendo un qualsiasi brano più o meno lungo di un libro) per coglierne i tratti salienti e mandarli a memoria in modo da ricordarli per un periodo più o meno lungo. Ebbene, questo metodo, non ce l'ho mai avuto. Sono andato avanti fino al diploma con la speranza di riuscire ad acquisirne uno in grado di poter realmente godermi la vita; il diploma mi ha lasciato il massimo dei voti, illudendo tutti i miei familiari, ma non me, che, infatti, non sono mai stato felice di ciò. Non so cosa i miei insegnanti abbiano visto in me, di certo non quel talento che avrei dovuto avere per primeggiare. Per inciso, io al liceo non facevo altro che studiare, anche dodici ore al giorno escluso il periodo che passavo sui banchi: la maggior parte delle volte arrivavo, ciononostante, impreparato a scuola. Arrivavo a dormire, per la cronaca, anche due-tre ore a notte per intere settimane. Mi è sempre mancato questo metodo, per qualunque campo del sapere. E la cosa brutta è che accanto a questa assenza c'è sempre stata una sana curiosità per quello che studiavo o leggevo. Forse da sola essa è riuscita a sopperire, ma in effetti non è così, visto che oggi ho come un enorme macchia sui contenuti di ciò che ho studiato, soprattutto al liceo.
Adesso, con questo concorso, il male mio di vivere, la mia croce è tornata a farsi viva. Io ho la chiara sensazione di essere diventato ancora più stupido di quanto non fossi già. Mi sento proprio così, stupido, e con questa stupidità non riesco a godere di nulla. Stupidità per me è depressione. E la depressione viene ben descritta citando la noia che accompagna le mie giornate, perchè avrei voluto studiare all'università e non posso farlo per l'assenza di certezze psichiche in grado di dare ordine a ciò che studio, semplicemente di rendere il mio studio produttivo. Non mi basta più, infatti, conoscere tutte le capitali del mondo. Lo studio per me, ventitreenne, se non è produttivo, non vale più.
Adesso mi fermo, ma continuerò anche in seguito a chiarire man mano.
Messaggi di Nemecsek
-
-
Io non lo so, aska, qualcuno dice che non serve parlare, forse ha ragione, ma io mi chiedo: piuttosto che un Padre autorevole, può darsi che a tuo fratello serva una madre, ossia quella parte "genitoriale" che è capace di dargli abbracci, non solo nel senso reale della parola (probabilmente li respingerebbe), ma anche nei piccoli gesti che si fanno per cercare quantomeno di comunicare con lui. Ad esempio, non so, modulare la voce per cercare di farla sembrare proprio quella di una madre, oppure, non so, aiutarlo a mettere in ordine le cose, cercando di parlare del più e del meno, magari dei ricordi, cercare di fargli ricostruire un' identità salvando dalle ceneri le cose che stima di sè. Solo in questo clima, poi, raccontargli magari le esperienze di tante persone che grazie ai farmaci sono guarite. Potresti, ad esempio, parlargli di questo forum, magari non svelandogli seccamente l'argomento che lo tiene insieme, ma parlandogli più che altro, non so, delle persone che vi sono, delle esperienze di chi è riuscito a risolvere i suoi problemi proprio grazie ai farmaci.
Diciamo che il tuo essere sua sorella è straordinario, se avessi una sorella vorrei che ti somigliasse, credimi. Tuttavia probabilmente proprio perchè sei così delicata verso tuo fratello, spesso prende il sopravvento quella parte della delicatezza che è il timore di poter agire male. Ripeto, è solo un' impressione, ma mi permetto di dirti questa cosa perchè non voglio offenderti, ma semmai stimolarti alla riflessione. So che è tremendamente complicato: io non parlo con i bambini piccoli, con i miei cuginetti, proprio per la paura di poterne ferire l'inconscio, e quindi, per troppa delicatezza, fare loro del male.
Però allo stesso tempo, in questa situazione, si richiede da parte tua, senza chissà quale sforzo (si tratta solo di essere una sorella, quella con cui si condividono anche giochi e conversazioni: anche in questo, sono convinto, sei la sorella migliore del mondo) un affetto materno, più consapevole della potenzialità che questo affetto può avere su tuo fratello. Solo da qui, a mio avviso, potrebbe partire il convincimento di tuo fratello stesso a prendere i farmaci.
Quello di prendere perfettamente consapevolezza del proprio ruolo di genitore (io traslo la cosa per te che sei la sorella, ma secondo me si può fare un discorso analogo) è stato il consiglio che la mia psicologa ha dato ai miei genitori, che evidentemente nel loro agire denotano una sorta di eccessiva delicatezza, quasi paura, nell' intervenire.
Adesso, che soffro tanto, ricordo quando mia madre mi convinse ad iniziare la mia terapia farmacologica: non fu mai tanto madre come in quel momento, forte, decisa, permeata di quella forza che solo i figli sanno darti.
Non so, dimmi che ne pensi, se quello che dico piò aiutarti, o semplicemente se è una marea di inesattezze. -
Ieri mi ha preso una forte tristezza sentendo al telegiornale la notizia. E' come se fosse morta una di famiglia, per i primi minuti mi sembrava quasi una specie di scherzo, almeno io avvertivo come tale questa notizia. Ultimamente mi ero avvicinato molto alla sua poesia, ma, più di tutto, alla sua esperienza di vita, segnata dalla sofferenza più profonda e dall' internamento in manicomio.
Volevo riascoltare insieme a voi questo brano musicale:
E, alcuni dei suoi versi, che, più di tutti, sono capaci di descrivere lei e la sua poesia:
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera. -
Qui vibra tutto, in silenzio, io lo percepisco;
percepisco il lento scorrere del Tempo, accanto
una foglia morta
riflessa in un ombra gentile, morta.
E dietro sé le macerie, le macerie della guerra,
genocidio e stupro,
un ghepardo, assonnato e stanco
inseguendo una folle zebra, confusa, di là di un dirupo.
Migliaia di foglie, a frotte, a fiumi
Giungono selvagge dietro una montagna;
a destra, il profumo di muschio,
a sinistra il tanfo delle banane
E al centro, insolente, il puzzo di lumi,
orribile, spietato; avvolge tutto, chiudo
gli occhi, vedo mille teschi
colorati, e liquami di parole raccolte, vane. -
Citazione
Da dove viene il tuo dolore?
Cos'è che non è andato nella tua vita?Il mio dolore viene dal Nulla, è proprio questa la cosa che più mi fa male. Non c'è un' apparente motivazione ad esso.
So solo che c'è, poichè lo sento molto forte. Riesco a dire solo questo. -
Ciao Paolo, rispondo alle domande.
In generale, i miei genitori sono assolutamente fantastici. E' semmai l'immagine che ho di loro che mi spaventa. Alla fine l'Altro che più ci fa soffrire ritengo che sia non l'Altro reale, ma l'immagine che noi ci facciamo di questo Altro.
Per venire alle tue domande:
1) I miei genitori non mi stressano. Mi riferisco, in questo, ai genitori reali, non al Padre e alla Madre psicanalitici.
2) Loro non mi dicono frasi angoscianti, semmai agiscono in modo contrario, cercando di non farmi vivere questo mio disagio come un'angoscia.
3) Per loro è importante che il loro figlio stia bene con sè stesso e nel mondo, quindi, meno che mai
4) il fatto che loro muoiano senza vedermi laureato non è il più grande dolore, nemmeno il più piccolo, non è fonte di dolore. Per come si comportano con me, direttamente.
5) I miei genitori no, non sono laureati.
Poi finisce il territorio dei miei genitori reali ed inizia quello dei miei genitori immaginari. I miei genitori immaginari sono i genitori che ancora non riescono a capacitarsi di come un "cento e lode", per di più unico nella classe diplomatasi nel 2006 della sua scuola, sia finito così male. I miei genitori immaginari sono totalmente diversi da quelli reali. I miei genitori immaginari sono quelli che non soffrono per il fatto che io sto male, ma per il fatto che io non sia riuscito a completare il percorso che il destino, a furia di sovrastimare le mie capacità, ha tracciato per me. I miei genitori immaginari sono quelli che soffrono dentro. -
Ragazzi, grazie a tutti per le risposte.
Rispondo un po' a tutti contemporaneamente.
Sono proprio come una nave senza orientamento. Ho la morte nel cuore nel fare le cose, nello studiare. Però dall'altra parte c'è una spinta contraria che mi terrebbe ancora lì. E' una spinta disonesta, una spinta caratterizzata dal ricordo degli anni (2) trascorsi senza andare all'università (sono proprio gli anni che "mi hanno fatto perdere tempo").
E' difficile ragionare, per me, in questo stato. Non riesco che a pensare alla confusione che ho in testa, e a come concetti come "identità" o "personalità" abbiano subito un mescolamento con il Caos della mia mente.
Là fuori, nel mondo, niente mi aiuta. E' questa la fonte più grande di malessere. Davvero, non si vede più una speranza. Io, che solo grazie a un continuo percorso di speranze sempre diverse, sempre particolari, sempre momentanee, sono arrivato a finire la scuola, che pure si era messa male (ho avuto difficoltà anche al secondo anno di liceo, ma almeno lì c'era ancora la Speranza).
Spesso mi sveglio la mattina, e penso subito all'immagine del mondo crudele. Piano piano mi sono pure abituato all'idea che la vita sia solo fonte di dolore, e che almeno sulla terra, per persone come me, la gioia non sia consentita. Lungi dal voler ripetere concetti usuali, io questa sensazione la sento, e con essa la "morte nel cuore" che mi condiziona l'esistenza.
Non sono più libero, e non mi sono abituato piano piano alle catene. Tutto parte da lì.
Oggi, all'idea che dovesse essere l'ultima volta che andavo all'università, a tratti ero quasi come "liberato" da un peso, a tratti mi ricordavo del passato di immobilismo esistenziale (è il lavoro che ci muove, non c'è niente da fare, tutto il resto sembra davvero secondario) e non volevo accettare questa ennesima delusione.
La mia paura più grande è quella di rimanere disoccupato alla morte dei miei genitori, sempre che ovviamente non muoia io prima. Più che una paura, è il Terrore, l'immagine di ogni paura che vivo. Non ho più paura di niente, nemmeno di morire, perchè la Paura non ha più l'immagine della morte, ma di questa Disoccupazione.Infine, l''immagine di un passato glorioso, carico di aspettative, è come il sale sulle ferite.
Io credo che ognuno di noi abbia delle Paure, più o meno lontane, capaci di motivare, a loro modo, ad andare avanti con una buona dose di "forza della disperazione", dove il termine "disperazione" assume un valore profondo, descritto mirabilmente da vari filosofi. Poche persone, invece, si trovano a viverle queste paure. Io sono una di queste persone, che di fronte a queste paure perde ogni concezione della realtà.
La mia depressione, se esiste, va proprio in tal senso, in tale direzione. Io sono depresso perchè vivo la mia morte, ossia le paure che distruggono ogni anelito di vita.
Mi ripeto continuamente "non doveva succedere, non doveva succedere", e intanto è successo, solo questo conta.
Perdonatemi, ma più chiaro di così non riesco ad essere. -
Pavely, la tua risposta è bellissima. Appena sarò meno stanco, ti dirò la mia.:)
-
L'utente giovanni79, in una sua discussione, parlava di un elaborazione del suo senso di delusione di fronte alla serie di eventi che aveva caratterizzato gli ultimi anni.
Dalle sue parole mi era parso di capire sostanzialmente che gli sarebbe servito una specie di processo di elaborazione post-lutto, che si fa appunto per cercare di eliminare quella sensazione negativa che segue a un dolore così grande ma, soprattutto, dolore che dà l'impressione che da esso non si possa più uscire.
Io chiedo il vostro parere su una cosa. La mia vita adesso è diventata una sorta di rimpanto eterno, di latrato contro la storia, contro il tempo passato che non permette reversibilità. Io ho perso, per cause che non imputo alla mia volontà "sana", l'attimo per intraprendere la vita universitaria. Adesso, che sono passati alcuni anni dal diploma, non riesco più a ritrovare sensazioni che mi facciano stare decentemente, pur nella fatica. La sensazione più brutta è proprio quella, "impossibile da sostenere", di aver perso l'attimo giusto. Il tempo è diventata la vera prigione per me.
Questa sensazione di essere non solo "fuori posto", ma anche "fuori tempo", all'università, di trovarmi in un anacronistico tentativo di riportare le cose a posto (quando ormai gli anni passati pesano come un macigno), di ritrovarmi di conseguenza, fuori da ogni cosa riguardi una vita normale (perchè in me tutto segue dallo studio, essendo il cardine della mia esistenza malata), questo tentativo va contro l'altro polo, la reale causa che mi spinge indietro, come se fossi contro. Come già diceva anche pw81 parlando di sè, la mia esistenza attuale troverebbe compimento solo nell'impossibile laurea entro un tempo ragionevole dal diploma, cosa ormai impossibile perchè dal mio diploma sono passati ormai tre anni, ed io non ho ancora trovato un mio equilibrio negli studi.
In definitiva, l'unica cosa che potrebbe farmi rinascere sarebbe l'impossibile ritorno indietro nel tempo, che a volte, essendo io stesso fortemente disperato e quindi alla ricerca di una speranza, caratterizza il mio mondo onirico. Siccome ovviamente la soluzione è impossibile, allora io chiedo a tutti voi, a chiunque voglia interessarsi di questo mio sfogo: è possibile far sì che la mente viva il "proprio lutto", con procedimenti psicanalitici in grado di farle dimenticare questo sfasamento con il tempo passato e mai più recuperabile? -
Chitarra classica sempre scordata e scassata, nemmeno mia;
basso elettrico, prima di più, ora quasi mai;
tastiera, quasi mai;
citofono;
campanello di casa.