Posts by dariamorgendorffer

    Ciao. Ultimamente sono successe un po’ di cose nella mia vita, per quel che riguarda la sfera delle amicizie: di per sé forse sono piccole, ma una volta unite con un filo rosso mi stanno facendo riflettere.


    Premetto che sono sposata e prossima ai 40, così da contestualizzare meglio quello che sto per raccontare.


    Sono sempre stata una persona socievole, anche se piuttosto selettiva: rapporti cordiali con molte persone, facilità nel relazionarmi, ma amici veri scelti con grande cura. Non ho mai fatto parte, neanche in adolescenza, di una grande compagnia di amici, preferendo sempre la frequentazione individuale o in piccoli gruppi di 3-4 persone (mi è anche capitato di esserne il fulcro) con persone di “provenienze” diverse (scuola, università, lavoro…) con cui ho costruito rapporti profondi, che sono sopravvissuti anche ai periodi in cui ho vissuto all’estero tra i 20 e i 30. Ho spesso avuto il ruolo di “confidente” e varie volte sono stata l’unica o la prima a sapere di certi eventi centrali nella vita degli amici, spesso sono quella a cui chiedono consigli.

    L’amicizia ha sempre avuto un peso molto importante nella mia vita, cosa che mi differenzia molto da mio marito, che invece è una persona più solitaria e tende a prediligere la dimensione di coppia o le frequentazioni con altre coppie, piuttosto che le sue amicizie individuali.


    Ultimamente, però, sento che è cambiato qualcosa.

    Di seguito alcuni esempi:


    1) Il marito di un’amica organizzava un piccolo evento e lei ha mandato messaggi di invito immagino a un po’ a tutto il suo entourage, me compresa. Io le avevo risposto che sarei andata. Ho chiesto a mio marito di accompagnarmi, dal momento che io e questa amica non conosciamo molte persone in comune e non mi andava di trovarmi lì sola, ma ci tenevo a passare perché sapevo che a lei avrebbe fatto piacere. Siamo arrivati e lei, apparentemente felice di vederci e forse proprio con l’intenzione di sottolineare questa cosa, mi ha detto: “Avevo rimosso l’ipotesi che tu potessi venire!”

    Io sono rimasta un po’ così, perché dentro di me pensavo: di altri evidentemente si aspettava la presenza perché hanno un rapporto più assiduo, mentre per quanto riguarda me forse non ci teneva poi così tanto, il fatto che io sia andata non ha fatto la differenza.


    2) Una mia amica diversi mesi fa mi ha tirata in mezzo per prendere i biglietti per andare a un concerto che si terrà quest’estate in un’altra città. Mi aveva detto che ci sarebbe stato anche un suo amico. Io prendo il mio biglietto, glielo dico e aggiungo che ci sarebbe stata anche un’altra mia amica. Rimaniamo che ci saremmo sentite poi per trasporti e alloggio più sotto data.

    Nel frattempo succede che lei subisce un grave lutto, io le sono stata vicina per come si può in queste situazioni, e in generale le do sempre ascolto quando mi parla delle sue relazioni sentimentali disfunzionali, ci sentiamo spesso (molto più di quanto ci vediamo) in merito a questo argomento.

    Qualche giorno fa mi viene in mente di scriverle che forse bisogna iniziare a pensare alla trasferta per il concerto e lei mi dice: “Non mi ricordavo neanche più che avessi preso anche tu il biglietto, io mi ero mossa per la ricerca di una casa lì per me e il mio amico ma ora non so neanche più se posso andare perché ho un altro impegno. tu hai qualcun altro con cui vai, vero?” E poi procede ad attaccarmi la pezza sul perché è il percome fa fatica a organizzarsi per andare.

    Io da un lato voglio concederle l’attenuante di essere un po’ sottosopra per quel che le è successo, ma dall’altro non posso fare a meno di pensare che evidentemente anche in questo caso la mia partecipazione non era fondamentale: lei aveva già preso accordi con altri con cui evidentemente condivide di più, di me manco si ricordava.


    3) Una mia amica che vive all’estero ha avuto anni fa un problema di salute ed è venuta a curarsi nella mia (nostra) città. Mi aveva chiesto di aiutarla e starle vicina in quel periodo, cosa che io ho fatto al mio meglio, poi però, una volta tornata nel paese in cui vive, ha messo molta distanza tra noi. Anche lì, io avevo pensato che dovevo rispettare questa cosa perché era lei quella che stava male e forse questo atteggiamento le serviva a superare meglio la cosa, ma dentro di me mi dispiaceva e sentivo la sua mancanza. Ha iniziato a farsi viva sporadicamente, solo in occasione dei suoi rientri nella nostra città (peraltro neanche tutte le volte), ma quando viene rimane sempre ospite da un amico con il quale invece, evidentemente, c’è maggiore assiduità che con me. E infatti, con dispiacere, alla lunga avevo anche iniziato a disinvestire su questo rapporto. Adesso, purtroppo, ha di nuovo un problema di salute ed è tornata a farsi viva. Nei giorni scorsi ci siamo viste diverse volte e a me ha fatto solo piacere poter essere di supporto per quel che posso, anche se è sempre lei a dettare l’agenda del nostro rapporto. Ovvio, la salute non si può controllare, ma forse, se avessimo mantenuto un’assiduità anche in tempi “normali”, troverei il tutto meno stridente.


    4) In tutto questo, io ho da poco perso il lavoro. Tendenzialmente sto bene. Era solo una questione di tempo, me lo aspettavo e non sono disperata. Ma è pur sempre un evento traumatico e stressante. E tuttavia, a parte l’amica del primo esempio che si è attivata subito per me (tra l’altro appunto di recente, motivo del mio straniamento davanti alla sua frase), in generale mi sento lasciata un po’ sola da molti degli amici che io considero importanti. Fortunatamente ce ne sono alcuni che stanno vivendo o hanno vissuto la mia stessa situazione e sto avendo molti scambi con loro, ma per il resto mi sembrano tutti molto assorbiti dalle loro vite e la cosa che mi sono sentita dire più spesso è: “Ma sì, dai: con il tuo cv troverai in un secondo”. Liquidata così, forse anche a fronte del fatto che vedono che sto bene. Mi rendo conto che il mio problema non è grave come un lutto o una questione di salute, ma in generale mi sembra che, a fronte della mia disponibilità quando gli altri stanno male, non ci sia spazio per me quando si tratta di me.


    Cosa evidenziano queste mie considerazioni?

    Che i rapporti che ho con queste persone non sono intensi o assidui come credevo, che io non sono poi così importante nelle loro vite.

    Mi sto chiedendo cosa sia successo.

    Nella premessa specificavo la mia età e il fatto che sono sposata perché in generale vedo che, diventando grandi, tende ad assottigliarsi lo spazio che concediamo alle amicizie, per i vari impegni del quotidiano (lavoro, figli…) e a maggior ragione questo accade a chi è in coppia/ha una famiglia.

    Può essere che io abbia negli anni privilegiato di più la coppia rispetto a quanto non facessi 10 anni fa, magari senza rendermene conto perché, come scrivevo, per me l’amicizia è super importante. E proprio per questo in realtà ho sempre cercato di coltivare i rapporti e non sento di avere molto da recriminarmi, se non forse il fatto di non avere mai “reclamato” abbastanza il mio spazio in queste relazioni, avendo spesso privilegiato l’altra persona e le sue problematiche. O il fatto di trovarmi spesso a rispondere a situazioni critiche o di “bisogno” che mi vengono sottoposte, quindi forse, poi, quando si tratta di condividere invece la sfera del “piacere” gli stessi amici scelgono di rivolgersi ad altre persone che fanno parte della loro vita.

    A me spiace perché davvero mi sembra che le mie amicizie abbiano perso di intensità e non capisco come mai.


    Da fuori, come la vedete?

    Aggiungo che questo aspetto caratteriale di ritrazione, chiusura, ripiegamento sulla dimensione interiore e casalinga è oggettivamente presente in lui, ma si acuisce esponenzialmente nei periodi (come questo) in cui è già sopraffatto da altri elementi fonte di ansia, e quindi anche la più piccola cosa che esce dall'ordinario gli sembra insormontabile. Il problema è che io, invece, quando vivo periodi di stress, reagisco nel modo opposto, pianificando cose per me piacevoli da fare per spostare l'attenzione su altro e vivere quel senso di "anticipazione" di qualcosa di bello. Ecco che (torno all'esempio del weekend via) in un periodo "difficile" in cui ci sono in circolo preoccupazioni etc, per me l'idea di partire diventa una fonte di energia vitale, mentre per lui diventa un ulteriore motivo di ansia che si aggiunge a quella che già ha.

    Fortunatamente ci sono periodi in cui non si vive ogni cosa così male, altrimenti saremmo stati proprio incompatibili. Però quando siamo entrambi sottoposti a stress, sentirsi un team o quantomeno una coppia che guarda nella stessa direzione diventa difficile.

    Ciao, fai qualche altro esempio? Perchè quello riferito al week end sembra più essere legato a una possibile pigrizia piuttosto che a uno stato di ansia. Nella gestione della casa come si comporta? Da una mano? Lo fa in autonomia o devi chiederglielo?

    Ciao! Nella gestione della casa è fantastico, ci dividiamo molto equamente i compiti e si occupa di tantissime cose che non sono molto nelle mie corde (e viceversa!). In generale è una persona molto seria e responsabile. Nella dimensione della casa lui sta bene ed è felice e si sente al sicuro e se ne occupa quindi volentieri. In questa situazione c'è la complementarietà, la complicità che mi manca in altre, come nell'esempio che ho fatto del weekend. La sua, più che pigrizia (anche se capisco che potrebbe sembrarlo), è proprio ansia (per sua stessa ammissione) nei confronti delle situazioni che escono dall'ordinario e dal suo controllo. Socialità, viaggi, dimensione lavorativa quando presenta sfide.

    Ciao, grazie per le vostre risposte.

    È dura ammettere che, alle condizioni attuali, non mi fido abbastanza di lui per pensare di fare questo passo insieme a lui, ma tocca dirlo.

    Quantomeno mi serve a mettere a fuoco la radice del problema e a capire se e come si può risolvere.


    Ovviamente la mancanza di fiducia da parte mia è dovuta ai suoi comportamenti e non a un giudizio negativo su di lui in quanto essere umano.

    Lui è una persona estremamente responsabile e mossa nella vita da valori solidi e condivisibili.

    Però trovo un po' egoista, ombelicale e ancora "da ragazzini" questo suo ripiegarsi nell'ansia anche per delle piccole cose.

    Mi chiedo cosa succederà davanti ai problemi veri della vita e se potrò contare su di lui.


    Questo ovviamente è un grande deal-breaker davanti all'idea di un progetto che deve essere condiviso come quello di un figlio.


    Verissimo, come scrive bruce0wayne , che il mio farmi carico di una serie di cose al posto suo alla lunga diventa controproducente.

    Ovviamente non lo faccio per mero altruismo, ma anzi principalmente per motivi egoistici.


    Lo spiega bene il mio schema di gestione di una situazione-tipo di scelta "condivisa" (o che dovrebbe esserlo) con lui:

    • Voglio che facciamo una cosa insieme (rimanendo su cose del quotidiano, parliamo ad esempio di un weekend via, o una qualunque occasione di questo tipo che esce dalla routine);
    • A lui questa cosa fa venire l'ansia;
    • Io allora anticipo tutte le sue possibili rimostranze/paranoie/problematiche che gli "triggerano" l'ansia (temi organizzativi, economici, etc) e le risolvo io;
    • In questo modo ottengo che non debba pensarci lui e quindi non abbia più "scuse" per dirmi di no, e che quindi si faccia questa cosa che IO voglio fare.

    Non riesco a uscire da questo schema, per paura di quello che potrebbe succedere se io smettessi di sostituirmi a lui e prendere iniziative (spoiler: il timore è che non faremmo più nulla delle cose che a me va di fare).


    Per quanto comportarmi così mi faccia ottenere il mio scopo sul piano "oggettivo" (partire per il weekend), mi penalizza sul piano emotivo, perché mi priva non solo di moltissima energia che impiego per anticipare, sostituirmi, negoziare, ma anche di quella complicità e di quell'entusiasmo che deriverebbero dall'avere lui realmente "on board" su questa cosa, quando di fatto non lo è. Cioè lui partecipa perché "messo nelle condizioni" di farlo, ma rimane una cosa che voglio fare io. E quindi... ne vale la pena?

    Ecco, immaginate tutto questo traslato da un weekend fuori porta a una situazione macro, come la scelta di diventare genitori.


    Concordo moltissimo con ipposam sul fatto che la genitorialità non debba essere un sacrificio, ma nella mia situazione vedo un rischio bello grosso, per due motivi. Da una parte temo continuerebbe a ripresentarsi la necessità di farmi carico da sola di certe cose, perché lui non è abbastanza "funzionante" (un bambino stanca, richiede grande organizzazione e allo stesso tempo è fonte di continui "imprevisti" e cambi di rotta). Dall'altra, già adesso lui con i suoi comportamenti in certe situazioni annulla ogni forma di complicità e condivisione e quindi danneggia la parte "edonistica"/"godereccia" della vita, che compensa quegli aspetti più difficili e meno piacevoli legati al diventare genitori, e che quindi deve trovare spazio non solo nella relazione con i figli, ma anche proprio nella coppia in presenza di figli. Credo che questo spieghi anche perché io mi "ostini" a vedere principalmente i lati negativi.


    Io non so se, prima di giungere alla decisione oggetto di questo thread, si possa fare qualcosa per:

    1. Intanto smettere io di proteggerlo;
    2. Poi portarlo a capire che ha un problema e che questo ha un impatto su di me e su di noi come coppia;
    3. Poi cercare di risolvere questo problema.

    Vedo molti ostacoli.


    Sul punto 1. posso e devo provare a lavorarci io, a costo di correre, magari inizialmente, il rischio di scontri e/o rinunce.

    Sul punto 2., a me sembra abbastanza oggettivo che se a 40 anni vai in ansia per un weekend via (rimanendo sull'esempio di prima), hai un problema. Però, nella sua testa, il suo problema diventa il mio, perché probabilmente lui preferisce comunque rimanere a casa piuttosto che affrontare l'ansia legata al partire. Quindi lui, secondo la sua percezione, non ha un problema, sente di riuscire a gestirlo. Il problema ce l'ho io che invece voglio partire. Come uscire da questo impasse?

    E ammesso e non concesso che ci si riesca e che lui riconosca il problema, arrivando quindi al punto 3., come lo affrontiamo? Io sono convinta che lui avrebbe bisogno di andare in terapia. Ma come convincerlo? Io che sono abituata a proteggerlo ho timore di essere troppo tranchante se gli do una specie di "ultimatum". Servono davvero a qualcosa? Ha senso mettere da subito sul tavolo il tema della genitorialità come motivazione, considerando che io questo problema lo vorrei risolvere a prescindere, per poi arrivare a capire se è davvero questo che ci sta bloccando, e arrivare a pensarci con il campo sgombro da questo tema dell'ansia?


    Come al solito mi dilungo, ma spero che tutti questi dettagli possano essere utili a chi legge per condividere consigli, opinioni, esperienze analoghe.


    Grazie.

    Credo di aver appena avuto un’epifania. Forse ho capito cosa mi blocca rispetto alla decisione di diventare madre. è il fatto che io praticamente mi trovo/mi sono messa nella situazione di “accudire” perennemente mio marito da un punto di vista emotivo, con picchi come quello che stiamo vivendo in questi giorni. Lui è uno abbastanza solo/solitario che soffre d’ansia. Io, che invece sono più solida e iperattiva e socievole (nonostante io scriva su questo forum e quindi evidentemente non sia priva di pensieri e preoccupazioni) mi accorgo che, per compensare, mi faccio carico di tantissime cose, in modo da alleggerire lui dall’incombenza di doverle fare e nella speranza più o meno vana che questo serva a lenire la sua ansia. Inoltre lui mi chiede tantissime attenzioni continue: per lui la coppia viene prima di tutto e tutti, mentre io ho una vita molto piena tra amici, colleghi, famiglia, attività che svolgo fuori casa nel tempo libero, ovviamente compatibilmente con il fatto di essere sposata (non esco certo tutte le sere senza di lui, per intenderci). Lui accetta questo mio modo di essere e di vivere, ma quando ci sono monopolizza, deve essere al centro della mia attenzione, soprattutto quando sta male e io “devo” ascoltarlo e consolarlo. Ad esempio adesso è in un’ansia bestiale perché sta aspettando una risposta su una questione per lui importante (non si tratta di salute, né di qualcosa che mette a repentaglio l’incolumità sua o dei suoi cari o la nostra stabilità economica o abitativa o simili - per dire che non è nulla di grave o irreparabile): la vive come una questione di vita o di morte e come un’occasione (ennesima) per buttarsi giù e vedere se stesso come un fallimento, peraltro prima ancora di conoscere l’esito. Si chiude in se stesso, parla poco, sta sulle sue. E l’aspettativa, totalmente data per scontata, è che io sia quella forte e paziente che lo sta a sentire e consolare e sopporta questo suo stato d’animo senza battere ciglio (quando peraltro ho anche io i miei c∙∙∙i, oltretutto per ragioni molto simili alle sue, e lui lo sa perfettamente perché gliene ho parlato, ma manco è in grado di vederlo perché troppo concentrato sul problema che lo affligge). Come l’archetipo della madre che si sacrifica. Ecco, io questo spirito di sacrificio non ce l’ho. A me tendenzialmente sembra una cosa sana non averlo perché significa preservare me stessa. Sia chiaro, questo non vuol dire che io non lo stia a sentire e non gli dia consigli e non cerchi di stargli vicino. Però ho osato fargli notare che il suo stato d’animo ha un impatto anche su di me e che la situazione è comunque pesante anche per me. Apriti cielo: “Non mi sembra di fartela pesare, io questa cosa non te l’avrei mai detta, immaginala a parti inverse”, e così via, quando il mio non voleva essere un giudizio su di lui, ma una semplice espressione di come mi fa stare questa situazione. Della serie: ok, stai così, ma ricordati che non esisti solo tu. Insomma: di fatto io già adesso, soprattutto quando lui ha questi periodi d’ansia che non riesce a gestire e che monopolizzano la nostra quotidianità, mi accorgo che malsopporto la cosa e non riesco a mettere i suoi bisogni davanti ai miei (ripeto: per fortuna! Almeno dal mio punto di vista) e vorrei essere altrove per prendere una boccata d’aria fresca. Io un figlio lo vedo fondamentalmente come una condanna a questo atteggiamento di sacrificio da dover adottare. Come si fa a farlo, se si è come me?

    Ciao!

    Grazie mille per le risposte che mi avete fornito.

    Mi spiace essere sparita, ma ho approfittato delle vacanze per parlarne approfonditamente con mio marito e poi del rientro per farlo con la mia terapista.

    Penso alla maternità continuamente e sempre di più: ormai appena apro gli occhi la prima cosa che mi viene in mente è quella, e questo credo che sia un chiaro messaggio che corpo, testa, "orologio biologico" o non so quale altra entità si sia impossessata del mio cervello, mi stanno mandando.

    Spesso continuo, però, a farlo non con il migliore degli spiriti: magari mi sto rilassando leggendo un libro dopo una doccia calda e penso: ecco, questo non succederà mai più! Anche se poi so che non è esattamente così.

    Ho davanti molti esempi "virtuosi" di donne diventate madri che hanno difeso strenuamente i loro spazi di libertà. Sono convinta che ovviamente la vita cambia, ma gli spazi personali, se ne hai bisogno e sono una tua priorità, non spariscono: cambiano al cambiare della tua vita, ma te li tieni. Questo me lo hanno detto in tante. Soprattutto se hai la possibilità di essere aiutata su più fronti.

    Forse devo imparare a "integrare" gli aspetti contraddittori di questa esperienza. Il fatto che possa essere bella e fare paura contemporaneamente, senza che la paura sovrasti i lati positivi che sicuramente ci sono. Come un paio di scarpe nuove che all'inizio sono scomode e ti fanno venire le vesciche e fai fatica a camminarci, ma poi prendono la forma del tuo piede e diventano comodissime e te le tieni per anni.

    Mi serve ancora un po' di tempo, credo, sempre se sono un caso "recuperabile".

    Ciao! Grazie a tutti per le vostre risposte, mi avete dato molto da pensare. Punti di vista diversi tra loro e tutti validissimi.


    Non ho figli ma le donne che ne hanno avuti, anche di recente, mi hanno descritto tale decisione come lo spontaneo risultato di un percorso, come se tutto cio' che si è fatto, anche in tempi in cui non si pensava di averne, avesse comunque condotto a tale consapevolezza... insomma un disegno che si compie ma che non è stato disegnato solo con la volontà, è la vita che ti cambia, le esperienze ... poi c'è anche una predisposizione a voler essere madri.

    Ecco! A me questa spontaneità manca, quantomeno per il momento. Magari arriverà anche per me e adesso sono solo a un certo punto del percorso che mi porterà lì... o magari no. Sicuramente anche io penso che dovrebbe venire più "naturale" come scelta rispetto a come mi sento ora.


    fare un figlio deve essere una scelta sulla quale non si ha alcun tipo di dubbio o incertezza.

    Riagganciandomi a quanto sopra, concordo molto anche su questo e infatti forse devo darmi ancora del tempo, come in molti avete suggerito, per vedere se cambia qualcosa e scompaiono i dubbi e le incertezze che ancora sento di avere.


    La differenza tra te e lui è che lui può farne anche tra 10 anni (anche se non con te). Anche se questa ipotesi oggi ti appare assurda: va tenuta bene in contro, perché nella mente di lui ha un effetto paracadute, ovvero: lui sa che atterra comunque sul morbido e non sente tutte queste "pressioni" che senti tu.

    È vero: questo aspetto è fondamentale da tenere presente, ed è vero che bisogna sforzarsi di tenerne conto perché nel qui e ora non è così immediato pensarci.


    L'enorme decrescita e decadimento a cui hanno assistito i millennial scoraggerebbe chiunque, però tu oggi sei in fase di "risalita". La maggiore consapevolezza data dall'aver visto sgretolarsi il castello di carta del passato è in realtà un vantaggio tattico.

    Posso chiederti che cosa intendi per "fase di risalita"? Te lo chiedo soltanto perché non mi è chiaro, concordo in realtà sulla consapevolezza (nel bene e nel male).


    L'importante è che tu tenga conto del fatto che indietro non si può tornare e che non ti faccia influenzare dai vari trend mainstream in stile "freeda" che inquinano la mente delle donne moderne facendole credere di essere Dio, eterne e vittime-invincibili.

    Mi fa molto sorridere questa tua visione su Freeda, non puoi immaginare quanto io la condivida. Lavoro in quel settore (non per loro!) e io personalmente chiamo la linea editoriale di Freeda "femminismo entry level" (e già sono di manica larga!).


    ovvio il figlio è pur sempre una grande gioia, ma non è facile essere genitori (scusa la banalità).

    Non è per niente banale: ogni volta che mi chiedono quando mi decido so che lo fanno con in mente la gioia che sicuramente porterebbe, ma perchè nessuno tiene invece conto delle difficoltà nel porre una domanda così delicata? La gente si comporta come se la scelta che devo compiere fosse tra un piatto di pasta e uno di riso e a volte sono io a sentirmi "sbagliata" perchè mi sembra di vedere solo i lati negativi. Ma forse lo faccio proprio perchè nessuno ne parla.


    Se pensi a te stessa tra 10 anni, ce lo vedi un bambino o ti immagini ancora in una dimensione di coppia? E se lo stesso esercizio lo fa tuo marito, cosa vede?

    Questo, nella sua apparente semplicità, è un ottimo spunto. è un esercizio che sicuramente dobbiamo fare, anche questo non scontato, perchè davanti a una scelta così non si pensa mai (quantomeno non io) così in là, ma più a come impatterebbe sul presente e sul futuro prossimo. Io infatti dico che ADESSO non ne ho particolarmente voglia e fatico ad allargare il campo. Lo faremo, ne parleremo, tenendo conto nel discorso anche di quanto osservato da Bruce sulla differenza tra me e lui in termini di tempistiche di possibile procreazione.


    Personalmente posso dirti che i tuoi pensieri sono molto simili a quelli che avevo io; peraltro mi piaceva moltissimo la mia vita senza figli, essere autonoma, non dover rendere conto a nessuno, dedicarmi al lavoro ma anche allo sport e ai viaggi e spendere i soldi in scioltezza esaudendo ogni capriccio, e viaggiare per il mondo mentre sentivo gli altri appresso a spannolinamenti e bocca mani piedi mi faceva sentire...leggera, spensierata.

    Grazie mille per il tuo messaggio nella sua interezza, mi ha trasmesso molta tenerezza e in qualche modo mi ci sono identificata, perchè mi ha mostrato quella che forse potrei essere io quando e se il mio percorso si evolverà e si concluderà con la scelta di diventare madre. Io adesso mi sento esattamente come descrivi qui...


    ho accettato la sfida, con tante, tantissime, infinite paure.

    Posso chiederti come hai fatto a superarle? Quanto hai contato su tuo marito e sulla sua decisione ad averne, e quanto è stato invece un percorso che hai fatto tu come individuo?


    Non ho comunque mai pensato di non avere tempo...e infatti appena ho pensato che potevo avere figli è arrivata la mia prima bimba.

    Posso chiederti quanti anni avevi alla prima gravidanza?


    Peraltro in onestà....io non ho rinunciato a nulla della vita di prima, continuo a viaggiare (almeno fino al Covid), continuo a fare sport (anzi, più di prima), solo che è necessario organizzarsi meglio, la libertà è di meno, per i primi 3-4 anni almeno. Ma a mio parere ne vale la pena.

    Come ti sei sentita in quei primi 3-4 anni? Non hai mai avuto nostalgia della tua vita di prima? Da come ti descrivi, immagino che la maternità abbia avuto un forte impatto sulla tua quotidianità - come sempre fa, ma nel tuo caso mi viene da pensare che la differenza tra il prima e il dopo sia stata più palpabile rispetto a chi magari fa una vita più "tranquilla".

    Ciao!

    Spero sia la sezione giusta e mi scuso in anticipo se questo tema è già stato trattato in altri thread - cosa che non mi stupirebbe affatto, dal momento che è una delle scelte più importanti, se non la più importante, della vita.


    Ho 38 anni e sono sposata da 3 con un mio coetaneo. Lavoriamo entrambi a tempo determinato con stipendi più che dignitosi. I nostri genitori vivono nella nostra stessa città. Da qualche mese ci siamo trasferiti a vivere nella nostra nuova casa, che abbiamo acquistato insieme, e che ha una seconda camera da letto, al momento allestita come studio/stanza degli ospiti. Insomma, abbiamo tutte le carte in regola per compiere il "grande passo". Eppure c'è qualcosa che mi blocca.


    Sarà l’età (soprattutto per me), sarà il periodo festivo che è stato costellato di parenti (genitori, nonni, zii…) che hanno iniziato a starci addosso con domande più o meno pressanti, sarà che sono circondata da amiche mie coetanee che, un po’ "last minute" a differenza di chi lo ha scelto intorno ai 30/32 anni, sono da poco diventate madri… fatto sta che da qualche tempo sono in preda a un pensiero costante, al limite dell’ossessivo, sul tema figli.


    A scanso di equivoci premetto che, a livello razionale, sono consapevole del fatto che:

    • Al giorno d’oggi 38 anni sono ancora un’età più o meno OK per compiere questa scelta, ma allo stesso tempo so benissimo che non mi resta tutto questo tempo;
    • Non è obbligatorio avere figli, ma allo stesso tempo scegliere consapevolmente di non averne è una scelta definitiva tanto quanto quella di averne;
    • Non è che quando si di diventa madri la vita finisce, ma allo stesso tempo è innegabile che cambi irreversibilmente.


    Tuttavia la testa non è fatta solo di pensieri lineari e ci penso in continuazione, senza trovare una risposta, oscillando tra momenti in cui mi dico (con poca convinzione) "ma sì, dai" e altri in cui l’idea mi sembra una follia o una forzatura.


    Non sono mai stata, neanche da ragazzina/più giovane, una con il sogno di diventare madre, non ho mai immaginato la mia vita adulta per forza di cose con bambini, ma non ho neanche mai dichiarato apertamente di non volerne. Diciamo che mi son sempre detta: "Poi vedremo, ci penserò più avanti". Ho sempre avuto tante altre cose per la testa che mi sembravano più "urgenti": stabilità lavorativa ed economica, oltre che sentimentale ça va sans dire; una casa adatta alle mie/nostre esigenze; oltre alle cose più "frivole", ma per me importanti, come fare qualche viaggio insieme al mio compagno e poi marito, coltivare le mie amicizie, le mie passioni e il mio tempo libero anche come individuo (sono una persona molto indipendente, con tanti interessi e tendente all’iperattività).


    Mio marito sul tema figli la pensa esattamente come me, e questo di per sé è positivo, perché siamo molto allineati, ma vuole anche dire che nessuno dei due "sblocca" l’altro né in un senso né nell’altro: siamo ancora sul "non lo so", in un momento in cui sento che ce lo possiamo permettere sempre meno.

    Credo infatti sia venuto fuori adesso il pensiero ossessivo perché ora non ho più "scuse", una volta abbandonato il bilocale per sistemarci in una casa con una stanza in più, e con l’età che avanza.


    A me della genitorialità incuriosisce l’esperienza umana, il sapere che la natura (in teoria) prevede questa possibilità nella vita di una persona, e quindi il pensiero che sarebbe un peccato non sfruttarla, non scoprire com’è. E poi c’è l’aspetto progettuale per la coppia: nella nostra storia si sono susseguite molte fasi, tutte accomunate dal fatto di costruire qualcosa insieme: la convivenza, il matrimonio, l’acquisto e la ristrutturazione della casa. Da brava iperattiva, mi chiedo: e adesso? Qual è il prossimo progetto? Se non è un figlio, esiste qualcosa che possa sostituirlo con pari intensità e che possa tenerci uniti?


    Però, al di là di questi pensieri, non sento il desiderio impellente di cui parlano tutti quelli che sono diventati genitori. Io sto benissimo così, mi godo la casa nuova, il tempo per me, la possibilità di dormire al mattino in questi giorni di ferie, di andare in palestra, di vedere le amiche per un aperitivo, di programmare weekend e vacanze in moto con mio marito. Vorrei poter continuare a procrastinare come se avessi 10 anni meno e quella scelta fosse ancora lontana nel tempo, ma adesso farlo mi mette ansia perché so che non può essere così. La mia psicologa mi ha consigliato di congelare gli ovuli per liberarmi dall’idea di dover compiere una scelta impellente, e capisco la logica di questo pensiero, ma temo che potrebbe anche essere controproducente e spingermi a procrastinare ancora di più.


    Ho una lista di paure che sembra l’elenco del telefono… ne cito solo alcune: paura che la gravidanza sia problematica, che il feto possa avere problemi (data la mia età), paura del parto, che il bambino possa nascere con problemi, terrore di come potrei sentirmi senza sonno e senza tempo per me, con una persona che dipende al 100% da me, con il pensiero costante di questa persona anche man mano che cresce, sempre per ragioni diverse…

    E queste paure forse superano la curiosità nei confronti dell’esperienza umana di cui parlavo prima, o quantomeno mi impediscono di viverla con la dovuta serenità.


    Sono anche, in quanto Millennial d’annata, molto sfiduciata nei confronti del futuro, e quando mi viene chiesto cosa voglio fare continuo ad accampare scuse tipo: sarebbe troppo deprimente fare un figlio adesso, con il mondo in queste condizioni, il cambiamento climatico, la guerra, la pandemia, l’instabilità economica, le destre al potere, l’universo che si sta espandendo.

    Ovviamente, a queste mie obiezioni, di solito il mio interlocutore replica: ma i figli si sono sempre fatti, anche con la guerra, Chernobyl, pochi soldi e varie altre condizioni sfavorevoli.

    E io dentro di me penso: forse semplicemente lo avete fatto perché lo volevate, e io invece non lo faccio perché non lo voglio. Ma non riesco a dirlo.


    Insomma, ho il sospetto che forse in fondo in fondo io non voglia diventare madre, ma che non abbia il coraggio di ammetterlo prima di tutto a me stessa e che finché non lo farò starò in questa condizione di limbo sempre più soffocante.


    Consigli, punti di vista, rassicurazioni, idee geniali?


    Grazie per l’ascolto.

    Ciao! Grazie mille per le risposte. Sono d'accordo che sia ora di lasciare campo libero ai due fratelli per una eventuale riconciliazione.

    Al momento, però, mio marito ancora non se la sente. Lo rispetto, ogni tanto cerco di portare il discorso sul tavolo per incoraggiarlo (non voglio certo alimentare ulteriormente questa situazione), ma non voglio e non posso forzarlo.

    Chiaramente, finché le cose staranno così, io vedrò sempre questo enorme elefante nella stanza e so che cederò periodicamente alla tentazione di essere stata io, almeno in parte, la responsabile di questa situazione, come i cognati vogliono farmi credere.

    Anche qui, sono io che devo trovare una strategia di sopravvivenza: se posso accettare di non poterci fare nulla, faccio più fatica a convivere con questa convinzione di essere colpevole e ho bisogno di trovare un modo per distaccarmene.